Nonostante sia uscito da pochi mesi, Retromania è già un libro su cui si dibatte molto, specie su internet. Il suo autore, Simon Reynolds, è stato una firma del Melody Maker e ha scritto libri importanti sulla storia della musica tra gli anni '70 e '90.
Questo suo nuovo lavoro è un libro a tesi sul perché la musica vecchia venda più di quella nuova e perché tanti gruppi recenti cerchino di imitare i suoni del passato; nel libro sono presenti in realtà anche mille suggestioni sulla moda e sui gadget di questi primi anni del 2000 e gli argomenti toccati sono veramente tantissimi (così come sono tantissimi i musicisti, le tendenze e gli artisti citati). Metto subito le mani avanti dicendo chiaramente che farò qualche osservazione solo su una parte delle argomentazioni di Retromania...
Il fatto più assurdo per Reynolds è che, secondo lui, l'industria discografica -come quella televisiva -voglia giocare sull'effetto nostalgia, inducendo però la nostalgia per epoche mai vissute dal pubblico! Così un ragazzino sarebbe0 indotto a provare nostalgia per il '77 del Punk o per il '91 dell'esplosione del Grunge, così come un quarantenne proverebbe nostalgia per gli anni '60 di Beatles e Stones. In quest'ottica vengono stigmatizzate (giustamente, aggiungo io), le reunion di gruppi sciolti da tempo e che oramai hanno ben poco da dire, sia che siano stati importanti fari (Pixies, Led Zeppelin, Pavement, Stooges), sia che siano stati solo dei gran venditori di dischi (Take That). Ad accentuare il problema ci sarebbe anche Internet che dà veramente la possibilità di trovare ogni minimo prodotto culturale creato negli anni citati, dando così l'illusione di poter conoscere bene un'epoca non vissuta. E qui arrivo alla mia obiezione da appassionato: quando ho ascoltato per la prima volta The Velvet Underground and Nico del 1967 sapevo che il rock degli anni '60 era eccezionale e che quel disco doveva essere un capolavoro ma non lo facevo per ricordare i bei tempi che non avevo vissuto: consideravo semplicemente quel disco un classico. E il concetto del classico, inteso come opera composta nel passato ma capace di parlare ad ogni generazione evidentemente manca a reynolds. Eppure questo concetto è presente in letteratura (chi mai pensa che la poesia di Dante non riesca a parlare all'uomo del XXI secolo? Chi pensa che i personaggi di Dostoevskj o Pirandello siano di un'altra epoca e lontani da noi?) o in arte (le bellezze di Botticelli sono forse messe in discussione? E cosa dire dell'arte sacra?)...perché dunque non può esistere nella musica contemporanea? Forse lui intende la musica (rock e rave sono in particolare i due macro-generi giovani che lui predilige) solo come un flusso capace di convogliare energia sempre nuova (si definisce spesso un futurista, un appassionato di fantascienza in cerca delle novità del futuro) e dunque che non può guardarsi indietro ma deve sempre innovare e scioccare. Infatti quando parla dei gruppi di questi ultimi anni che riprendono un suono del passato (Strokes, Black Keys...) li tratta con una sorta di disprezzo. Eppure solo quando deve parlare di musicisti-artisti che recuperano il passato che Reynolds non massacra il fenomeno bollandolo come passatista o fuori dal tempo o superficiale, il fermento artistico fa sì che lui appoggi generi discutibili come l'hypnagogic pop (musica che si basa su tastierine anni '80, per farla in breve...). Evidentemente la motivazione artistica per lui va oltre la musica, infrangendo una barriera oltre la quale tutto è possibile. Questa deferenza verso tutto ciò che è artistico è però un limite, considerando la durezza con la quale tratta i semplici musicisti.
Nelle ultime pagine di Retromania, traendo le conclusioni, Reynolds si dispiace di non riuscire più a trovare nella musica prodotta negli ultimi anni quel senso di nuovo e di sconvolgente che avevano il Post-punk e la scena Rave e qui arrivo anche io alla mia conclusione: per trovare qualcosa di mai sentito non è necessario andare dietro all'ultima moda o all'ultimo disco uscito. Qualche mese fa ho sentito per la prima volta My life in the bush of ghosts (disco del 1981 di Brian Eno e David Byrne) e ho trovato assurdo il suo mix di suoni, voci e percussioni, così come i nastri che confondono chitarre e voci in Vs (questa volta siamo nel 1982 dei Mission of Burma). L'effetto novità inoltre non è l'unico piacere che può dare la musica, altrimenti scoprire dischi nuovi sarebbe solo una caccia fine a se stessa. Riprendo con le ultime parole di questa recensione il discorso della ricchezza di internet. I tanti archivi che si trovano in rete (youtube, blog di appassionati, siti di bootleg) sono solo uno strumento e come tale possono essere usati in maniera più o meno responsabile. Di sicuro c'è il giovane che cerca su internet musica in maniera non superficiale, accostandosi al periodo storico in cui è stata prodotta senza nostalgie e con interesse (non per altro, ma giusto per rendersi conto che i Pink Floyd non sono contemporanei ai Flaming Lips ad esempio o che la musica dei Kraftwerk viene prima di David Guetta). Questo è importante per non considerare identici tutti gli stimoli che vengono lanciati, se una persona decide di mettere su un gruppo non deve necessariamente suonare tutto ciò che è stato grande in passato: le melodie dei Beatles, la potenza degli Who, la maestria dei Led Zeppelin, l'arroganza degli Oasis, l'intensità dei Nirvana...ma quello va al buon senso e alla sensibilità di chi ascolta e poi vuole creare qualcosa di nuovo.

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Oramai è da un paio di anni almeno che i commenti sui blog sono drasticamente diminuiti, spariti quasi direi. Non parlo solo della mia esperienza personale di questo blog, è così un po' ovunque, basta provare a cercare in giro sulle varie piattaforme (blogspot, wordpress sono le più diffuse dopo la chiusura di splinder) e si vedrà che i commenti sono veramente pochissimi anche su blog frequentati. Ieri è uscito un articolo su Wired che prova a dare una risposta al perchè "i commenti dei blog siano morti". Le motivazioni date dall'autore (la frenesia sui social network; le tantissime piattaforme su cui si può scrivere di un argomento, il lettore si perde tra esse; la moderazione dei commenti rallenta il dibattito)  mi convincono fino ad un certo punto. Non che non siano veri, in particolare penso che l'abitudine a leggere contenuti brevi e a commentare in maniera sintetica come avviene su Facebook abbia forgiato il modo di approcciarsi ad internet dei nuovi utenti, educati a mettere un mi piace o ad insultare (questo è più da Youtube) piuttosto che a partecipare ad un dibattito. Però a questo punto l'articolo spiega perché la gente non segua in maniera fedele un blog, ma non perché una volta arrivato sul blog non lascia poi un commento. Credo sia una questione di educazione comunicativa, oggi si commenta chi si conosce (Facebook), non l'estraneo che mi dà informazioni utili; in questo cambiamento di modalità di comunicazione credo che siano responsabili anche le piattaforme stesse. Anni fa era facile che, cercando la recensione di un concerto ad esempio, ci si imbattesse in blog di altri utenti, li si commentasse e questi rispondessero al commento. Adesso vedo che invece molti arrivano sul mio blog trovando quello che cercavano, ma nessuno scrive un commento... All'interno dello stesso Splinder inoltre la home page dava la possibilità di ricercare su altri blog e rendeva facile andare a curiosare. Questo oggi non succede più.  Probabilmente si tratta di uno dei tanti cambiamenti legati alla comunicazione via internet, ma cerchiamo di analizzare per bene questo fenomeno.
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