
Per celebrare questa giornata volevo condividere alcuni ricordi personali legati a tre negozi di dischi della periferia di Genova (Voltri, Pegli e Sestri) che oggi non ci sono più.
Durante gli anni del
liceo ero un assiduo frequentatore di negozi di dischi, nei quali
sfogliavo i cd per valutare quali sarebbero potuti essere i miei
prossimi e pochi acquisti che avrei potuto permettermi nel corso
dell'anno. Quello di Voltri non era male, a una decina di minuti da
casa c'era questo piccolo localino, che adesso è un negozio di
abbigliamento, che magari non avrà avuto molti dischi usciti negli
anni precedenti ma era molto puntuale nel farsi arrivare quelli
nuovi.
Nel febbraio del 1997 ho
comprato lì il primo disco che aspettavo febbrilmente: Blur
dei Blur.
Il gruppo usciva sconfitto dalla battaglia del Brit Pop, ma il loro
The great escape
mi piaceva molto. Era un disco che riusciva a sprizzare energia e
melodia anche nei brani più scazzati, con dei suoni che ascolto dopo
ascolto spuntavano sempre nuovi nelle orecchie, originali e molto
ricercati. Un altro motivo che mi legava particolarmente a quel disco
era il libretto: ricco di foto ironiche, di simboli e soprattutto
aveva i testi con gli accordi, una vera benedizione per me che stavo
iniziando a prendere confidenza con la chitarra.
Il
numero di febbraio di Tutto
dedicava
la copertina a Blur, presentandolo come un lavoro influenzato da
Pixies,
Pavement,
Nirvana,
l'hardcore
punk californiano, i Sonic
Youth;
tutti
nomi nuovi per me. Il singolo che anticipava il lavoro, Beetlebum,
aveva una chitarra un po' strana per i miei gusti, rumorosa e
disarmonica. Tutti questi elementi mi incuriosivano, non avrei saputo
cosa aspettarmi...
Ho
comprato il disco lo stesso giorno in cui era uscito. Appena arrivato
a casa ebbi solo il tempo di togliere l'involucro di cellophane prima
di andare a buttare la spazzatura. Ed ecco un'enorme delusione: il
libretto del cd consisteva in un cartoncino arancione piegato a tre,
con un paio di foto dentro. Iniziavamo male. Ricordo ancora il mio
scazzo mentre buttavo la spazzatura e aspettavo di ascoltare la
musica. Anche qui una nuova serie di delusioni: le chitarre suonavano come rumori da officina, la voce spesso aveva
strani effetti, le melodie andavano e venivano all'interno di uno
stesso pezzo, c'erano episodi rumorosi accanto a una calma noiosa,
per non parlare dell'ultimo brano in cui per otto minuti Damon Albarn
parlava su una chitarra che sembrava una sega elettrica. Quel disco
mi ha insegnato a non giudicare al primo ascolto, ha cambiato il mio
modo di ascoltare. Giorno dopo giorno imparavo a riconoscere la
melodia sotto al rumore, l'energia dentro al caos; ciò che il numero
di Tutto
definiva come ispirazioni per il disco sarebbero diventati i miei
compagni di ascolti negli anni a venire.
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