1. Ieri sera mi ero messo a scrivere qualcosa sulla morte di Lou Reed, poi ho lasciato perdere perché le mie mi sembravano o riflessioni inutili, che qualsiasi appassionato di musica potrebbe fare (anche se io personalmente non conosco tutta la sua produzione, mi fermo a cinque o sei suoi dischi), o semplici ricordi personali, e dunque ancora più inutili.
    Dopo un giorno invece torno sulla necessità di scrivere qualcosa. E sì, perché Lou Reed è stato uno di quei tre o quattro artisti che hanno attraversato tutta la storia del rock, marchiando a fuoco varie epoche; dalla New York artistoide della seconda metà degli anni '60, in cui ha dato con i suoi Velvet Underground una visione delle droghe dell'esperienza del concerto ben diversa da quella hippie dell'altra costa, agli anni '70 del glam e dell'ambiguità sessuale, modello per il punk e l'hardcore e poi grande vecchio del rock nell'ultimo ventennio. 
    Era ovvio che uno che ha fatto la sua vita non morisse di vecchiaia: dall'eroina (iniettata in ogni modo e maniera), all'alcool e alle anfetamine, aveva fatto veramente di tutto. Quello che ci rimane è la sua capacità di raccontare la realtà, di raccontare con un linguaggio violento e crudo (ringrazio sempre il cielo di non essere nato in un paese anglofono, altrimenti non avrei mai potuto ascoltare ad alto volume in casa The Velvet Underground & Nico con le sue lodi alle droghe e le storie di sesso e spaccio descritte così dettagliatamente). 
    Ci rimane il suo ritratto di New York ben vivido sia nelle storie dei VU che, soprattutto, nell'album dell'89 New York, così capace di portarti lì come un film di Scorsese. 
    Ci rimane soprattutto la consapevolezza che per fare ottima musica non sia necessario essere dei mostri di bravura o essere intonati al 100%, conta il cuore, la capacità di raccontare storie. 
    E questo, in un'epoca di star del gorgheggio e di musica come fenomeno di baraccone è il messaggio più grande.
    Buon ascolto, la morte di Lou fornisce a tutti una nuova voglia di continuare ad ascoltarlo
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  2. L'ultima prova discografica dei Babyshambles era stata Shotter's nation nell'Anno del Signore 2007. Poi il disco solista del 2009,  i continui problemi di droga e gli arresti di Pete avevano fatto pensare che il progetto Babyshambles fosse oramai una parentesi. Invece nel corso del 2013, a quanto pare soprattutto grazie al lavoro del bassista Drew McConnel, il gruppo si è rimesso a lavorare, con un piccolo cambio di formazione rispetto al lavoro "precedente" (batterista nuovo) e lo stesso produttore Stephen Street.
    Nonostante il tempo passato dal lavoro precedente, la band è sempre riconoscibile con le sue caratteristiche. L'album è vario negli stili e si avverte qua e là un senso di incompiutezza nella struttura dei brani e anche le linee melodiche non sono mai banali: tuttavia queste ultime caratteristiche, vero marchio di fabbrica di Down in Albion e già tenute a bada dallo stesso Street in Shotter's Nation, non emergono qui ad un ascolto non attento. Si parte belli carichi, con Fireman un brano dall'attitudine punk presentato nei concerti già da qualche anno e si continua con la melodia del primo singolo Nothing comes to nothing; melodicamente gli altri pezzi forti del disco sono Fall from grace (con il suo stile folk anni '60) e Picture me in a hospital (con tanto di violino) mentre Farmer's daughter ha un bel ritornello in cui la voce di Pete va in alto molto pulita ed educata (ritoccata con qualche programmino da studio...?). Penguins e la finale Minefield sono i pezzi che più cambiano forma, entrambi finiscono come brani di Be here now degli Oasis, ossia con un assolo di elettrica che dà nuova vita al brano. Sequel to the prequel ha uno stile swing fuori dal tempo (come erano fuori dal tempo i brani del disco solista di Doherty), così come il ritmo in levare di Dr. No ci riporta ai Clash di London Calling (o semplicemente al brano I wish per non allontanarci troppo).
    Ora due parole sui testi; una buona chiave di lettura ce la dà il ritornello di Sequel to the prequel: "All these heartfelt songs and melodies/ my melancholy baby/ are guests that never left my memory"; la malinconia, gli amori che non vanno come si vorrebbe sono temi portanti del disco, sia in Penguins (una specie di Perfect day) che in Maybelline. La volontà di ripartire è forse il tema principale, emerge da Dr. No, Picture me in a hospital, New pair, in Fall from Grace e nella finale Minefield: è la voglia di dare un seguito a ciò che è venuto prima. Un ottimo ritorno per i Babyshambles dunque!
    La versione deluxe ha anche un ulteriore cd con cinque brani: Cuckoo e Stranger in my own skin erano già nel repertorio di Pete Doherty da diverso tempo e qui presentate con un arrangiamento molto curato, mentre The very last boy alive è un pezzo di Drew McConnel, già ascoltabile da diverso tempo su internet. Le ultime due tracce sono una bella versione di After Hours dei Velvet Underground e una demo di Dr. No che ha più o meno le stesse caratteristiche della versione sull'album.
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