Ieri sera mi ero messo a scrivere qualcosa sulla morte di Lou Reed, poi ho lasciato perdere perché le mie mi sembravano o riflessioni inutili, che qualsiasi appassionato di musica potrebbe fare (anche se io personalmente non conosco tutta la sua produzione, mi fermo a cinque o sei suoi dischi), o semplici ricordi personali, e dunque ancora più inutili.
Dopo un giorno invece torno sulla necessità di scrivere qualcosa. E sì, perché Lou Reed è stato uno di quei tre o quattro artisti che hanno attraversato tutta la storia del rock, marchiando a fuoco varie epoche; dalla New York artistoide della seconda metà degli anni '60, in cui ha dato con i suoi Velvet Underground una visione delle droghe dell'esperienza del concerto ben diversa da quella hippie dell'altra costa, agli anni '70 del glam e dell'ambiguità sessuale, modello per il punk e l'hardcore e poi grande vecchio del rock nell'ultimo ventennio. 
Era ovvio che uno che ha fatto la sua vita non morisse di vecchiaia: dall'eroina (iniettata in ogni modo e maniera), all'alcool e alle anfetamine, aveva fatto veramente di tutto. Quello che ci rimane è la sua capacità di raccontare la realtà, di raccontare con un linguaggio violento e crudo (ringrazio sempre il cielo di non essere nato in un paese anglofono, altrimenti non avrei mai potuto ascoltare ad alto volume in casa The Velvet Underground & Nico con le sue lodi alle droghe e le storie di sesso e spaccio descritte così dettagliatamente). 
Ci rimane il suo ritratto di New York ben vivido sia nelle storie dei VU che, soprattutto, nell'album dell'89 New York, così capace di portarti lì come un film di Scorsese. 
Ci rimane soprattutto la consapevolezza che per fare ottima musica non sia necessario essere dei mostri di bravura o essere intonati al 100%, conta il cuore, la capacità di raccontare storie. 
E questo, in un'epoca di star del gorgheggio e di musica come fenomeno di baraccone è il messaggio più grande.
Buon ascolto, la morte di Lou fornisce a tutti una nuova voglia di continuare ad ascoltarlo
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