1. Mai come prima di questo periodo di feste si è parlato di tradizioni legate ai festeggiamenti. Al centro dell'attenzione di internet, dei giornali e dei discorsi tra la gente non è stato tanto il budget da dedicare alle spese, la crisi e i regali che sono sempre i soliti, ma il presepe e i botti di Capodanno.
    Partiamo dal primo: rappresentazione della Natività di Gesù pensata per la prima volta da S. Francesco circa 800 anni fa, è il modo più religioso di ricordare il Natale in casa propria. Anzi è l'unico modo religioso, dal momento che tutti gli altri addobbi (alberi, babbi natale, festoni) non mostrano simboli cristiani! Il modo più religioso per festeggiare questa festa religiosa è comunque andare a Messa. Lo scrivo qui che mi sembra il punto adatto: non sto criticando alcuna manifestazione di festa, sto considerando l'origine di simboli. Ma vediamo la polemica: il preside di una scuola di Rozzano in cui non si svolgevano da diversi anni recite per il Natale ha impedito ad alcune madri di insegnare canti religiosi alle classi. Nota bene: non ci sono di mezzo proteste di musulmani contrari ai festeggiamenti. Cosa tirano fuori i giornali e internet? Un preside cancella il Natale, non curandosi della realtà. Ed ecco allora che si arriva ai dibattiti e alla politica che subito coglie l'occasione per cavalcare un sentimento di difesa delle tradizioni: sì al presepe! no ai musulmani che non vogliono i nostri simboli (non curandosi della realtà...)! In questo clima non è strano allora sentire alcuni ragazzi di seconda media dire, molto tranquillamente, che non possiamo rinunciare alla nostra identità per colpa degli immigrati (il passaggio da musulmano a immigrato è semplice) e non dobbiamo sottometterci (non curandosi della realtà: chi è che non fa il presepe in casa propria o non mette addobbi o festeggia il Ramadan per rispetto ai musulmani?). Che poi non so quante persone di altre religioni si sentano offese dal clima di festa...il senso di una festa gioiosa come il Natale sta proprio nell'offrire la propria felicità anche agli altri, è per questo che si mettono gli addobbi. La gioia della festa non è un fatto privato, ma diventa pubblico. Un po' come quando in un ristorante si spengono le luci perché nel tavolo vicino uno sconosciuto festeggia il compleanno e i suoi invitati cantano a squarciagola "Tanti auguri". Diverso sarebbe il caso del coinvolgimento: se una classe ha alcuni studenti di altre religioni (ci sono anche i Testimoni di Geova che non festeggiano il Natale, non dimentichiamoli!!) è giusto che non organizzi attività religiose, al di fuori delle ore di religione, dalle quali sarebbero esclusi, allo stesso modo in cui non si fa una gita in montagna se c'è un ragazzino sulla sedia a rotelle. 
    Per concludere: si difende il presepe perché fa parte di un'identità culturale nazionale, noi italiani abbiamo sempre fatto così. Nota bene: noi italiani, identità culturale: di religioso non c'è nulla in questa difesa del presepe.
    Arriviamo al secondo punto: i botti di Capodanno! Da sempre i giovani fanno casino e i vecchi si lamentano. Anche questa è una tradizione, si sa che ogni anno è così! Ci sono turisti che si recano apposta in alcune città proprio per vedere i fuochi artificiali, così come ci sono ragazzi che si riforniscono in maniere più o meno legali per avere i botti più forti. Ma in questa storica dicotomia si è insinuata una nuova entità: gli animali e con essa i loro sostenitori: gli animalisti. Vero è che molti animali domestici sono spaventati dai botti che credo urtino anche il loro sistema uditivo. Se vogliamo elencare tutte le cose che sopportano male però mettiamoci anche le campane delle chiese, i collari a tubo (immagino che non si chiamino così...) e non so neanche se siano proprio contenti dei cappottini... Beh, comunque molti Comuni hanno vietato l'utilizzo di botti e di fuochi artificiali. Molti comuni, anche tradizionalmente famosi per i loro fuochi artificiali, hanno abolito questa tradizione.
    Non sto cercando di fare una campagna a favore dei fuochi o una contraria al presepe, ci mancherebbe! Voglio solo porre l'attenzione su fatti successi, guardandoli in una maniera esterna e un po' formalista forse. Risulta evidente che ci sono tradizioni di serie A e di serie B, alcune che possono essere abolite senza problemi e altre che vengono difese anche se in realtà non sono in pericolo. Ma la cosa che sinceramente mi inquieta è il criterio che sta dietro alle due serie. Non credo che il musulmano medio si offenda per un presepe, ma questo è quello che vogliono farci credere, non curandosi della realtà. E quando ci viene fatto capire che i diritti degli animali sono considerati di più di quelli degli uomini c'è veramente da preoccuparsi.


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  2. Attenzione, questa recensione contiene alcune anticipazioni sulla trama del libro

    Con Anna Niccolò Ammaniti torna a raccontare l'età che riesce ad analizzare con maggiore profondità: la preadolescenza. Ma la preadolescenza in questa storia è più di un contenitore temporale per i personaggi, è il limite stesso della loro esistenza. In una Sicilia del 2020 impazza oramai da quattro anni un misterioso virus che, diffusosi a partire dal Belgio, ha ucciso tutti i Grandi e pian piano uccide tutte le persone che entrano nella pubertà. I bambini protagonisti sono costretti ad arrangiarsi da sé, a vivere nei palazzi in sfacelo (ah, quanto è sempre piaciuta ad Ammaniti la decomposizione in tutte le sue forme!), a nutrirsi con confezioni di cibo vecchie almeno di quattro anni e a cercare di organizzarsi come meglio si può. Anna si ritrova a girare per la Sicilia perennemente alla presa con imprese da superare. Come in una fiaba deve allontanarsi da casa, andare alla ricerca di suo fratello Astor, che è più piccolo, viene rapito ma non vuole tornare. Poi c'è Pietro, che è una specie di aiutante che fa provare ad Anna un sentimento nuovo e alla fine, forse, c'è anche il mezzo magico. Il mio riferimento alla fiaba non è casuale -Anna stessa ne racconta con sue parole una importantissima per il folkore siciliano ad Astor, quella di Cola Pesce- perché è un genere antico, un genere che ci parla di una società diversa. Diverso è anche il mondo senza adulti e senza civiltà in cui vivono i personaggi, Non è un mondo più innocente o più selvaggio di quello in cui viviamo anche noi; ci sono bambini gentili, ingenui, che se ne approfittano come in ogni epoca. Soprattutto però è un mondo che ha bisogno di storie perché è tutto da inventare di nuovo, appunto un mondo bambino. Ed ecco allora che nascono miti e leggende. I contatti con il mondo passato sono pochi, è naturale allora che sia necessario avere qualcosa di nuovo in cui credere: i bambini in particolare creano delle leggende sul virus e sui modi per guarire. Molti credono che sia la figura mitica della Picciridduna l'unica a poter salvare chi ha già contratto la malattia. Lei abita in un ex hotel e lì si è formata una sorta di casta sacerdotale che si fa da tramite tra i bambini più grandi, quelli più a rischio, e la Picciridduna. Questo luogo è una sorta di santuario dove i bambini sono ammessi solo dopo aver lasciato qualcosa di prezioso. È il luogo della religione ufficializzata: motivo di legame per molti (è da qui che Astor non vuole andare via), di privilegi, di speranze ma anche di stordimento. Di notte vengono servite delle bevande a base di alcolici e sonniferi, che spesso aiutano i malati a passare all'altro mondo senza quasi accorgersene. In preda alla disperazione Anna cederà a questa bevanda e sperimenterà nella sbornia il sesso promiscuo e violento, da cui subito fuggirà. I miti, le storie di come funziona il mondo, non sono solo negativi e scollegati dal reale: Anna ha ereditato da sua madre Mariagrazia un quaderno con su scritto tutto quello che le serve sapere sul mondo e come affrontarlo, quaderno scritto pazientemente nel periodo della malattia di Mariagrazia. La morte è compagna di viaggio dei protagonisti, dalla primissima pagina, quando il lettore non ha ben chiare le coordinate di questo mondo nuovo, fino alla fine. Ammaniti non è un autore dal cuore d'oro e non risparmia sofferenze ai suoi personaggi, ma sa anche dare speranza, come ci insegna la storia del cane Salame, poi Manson e infine Coccolone.

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  3. Proprio ieri mi sono stati accreditati i 500€ per l'autoformazione degli insegnanti. Ho già fatto la lista della spesa che pian pianino metterò in pratica...Ovviamente questi soldi sarebbero potuti arrivare in altro modo, ma non starò qui a scrivere su cosa sarebbe potuto essere, condivido due considerazioni.
    La prima è che, con questo bonus da spendere e non da tenere per se stessi, viene attribuita una nuova funzione a noi insegnanti: docenti, psicologi, educatori e da adesso anche possibile traino del mercato culturale. Non è curioso? Ci viene chiesto di utilizzare una cifra alta in libri, spettacoli teatrali, cinema; insomma in campi che non se la passano molto bene. Sembra proprio un bel favore al mercato dell'editoria...scegliamo bene a chi dare i nostri soldi! E a proposito del dare i nostri soldi propongo un'iniziativa: usiamo il contributo in piccoli esercizi, librerie, teatri, cinema e quant'altro che possa avere un reale beneficio da un'iniezione di denaro per la cultura. Non sono contrario alle grandi catene o alla vendita di prodotti culturali on line, ma con questo contributo si può fare qualcosa di buonissimo per chi opera nel mondo della cultura e, di conseguenza, non naviga sempre in ottime acque
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  4. Mattatoio n° 5 è un romanzo di Kurt Vonnegut. Tra tutte le sue caratteristiche, viene ricordato per essere un'opera contro le guerre dal momento che viene pubblicato negli U.S.A. nel 1969 -nel pieno della guerra del Vietnam- e che racconta la distruzione della città tedesca di Dresda nel corso della seconda guerra mondiale ad opera di un bombordamento alleato. Motivi non sufficienti per definire il libro un capolavoro della narrativa americana, e infatti questi rappresentano solo la punta di un iceberg molto più consistente.
    Il 1969 è anche l'anno di Woodstock, la controcultura ha prodotto risultati notevoli in tutte le forme d'arte avvicinandosi anche ad autori che non nascono direttamente dal suo sottobosco. Come Vonnegut. Egli, nato nel 1922, non è un giovane hippie e i procedimenti letterari che usa sono in gran parte scollegati da questo clima culturale, tuttavia alcuni punti in comune tra il mondo hippie e alcune idee creative del libro non credo siano casuali e possono aver accentuato il suo successo proprio tra gli adepti della controcultura: pacifisti e interessati a una visione non lineare del mondo. E questo libro è lineare solo per poche pagine: quelle del capitolo 2, dove nel presentare il protagonista Billy Pilgrim, Vonnegut ci elenca già tutte le tappe della sua vita in ordine cronologico: la guerra e la cattura da parte dei Tedeschi che lo portano in vari campi di prigionia, la vita da sposato, l'incidente aereo e l'ospedale psichiatrico, la vita accudito dalla figlia, il rapimento da parte degli alieni che lo portano sul pianeta Trafalmadore, il suo intervento alla radio per parlare dei trafalmadoriani. Il lettore vive la vita di Billy come se fosse un abitante di Trafalmadore, ricordiamoci che Vonnegut si sente sempre uno scrittore di fantascienza: anche per lui la vita non è fatta di momenti che si susseguono in ordine lineare, ma di momenti che convivono nello stesso istante. Per questo i trafalmadoriani non hanno paura della morte: essa è solo uno dei momenti che possono succedere, subito dopo si ritorna ragazzi o adulti, per poi ritornare ad essere vecchi e malati e così via. Nei capitoli successivi infatti tutte le fasi della vita di Billy si alternano, avanti e indietro nel tempo. Cioè, mi spiego meglio: non è che vengano raccontate in ordine sparso, è proprio il protagonista che viene sballottato in un momento o in un altro della sua vita.
    Ma nel capitolo 1 cosa succedeva? Succedeva quello che di solito capita nelle prefazioni: l'autore ci spiega la genesi del suo libro, l'idea lasciata a metà tante volte di scrivere un romanzo sul bombardamento di Dresda. Solo che questo è il 1969 e la prefazione oltrepassa le sue barriere usuali, dunque questa spiegazione a costituire già il primo capitolo del romanzo. Vonnegut sceglie di raccontare le vicende da lui vissute durante la prigionia attraverso una storia il cui protagonista si chiama Billy. L'autore ci racconta tutto di lui, dal suo punto di vista a volte inverosimile, senza intervenire o giudicare. Sarà andato veramente su Trafalmadore o hai ragione sua figlia quando gli fa notare che racconta di questi strani viaggi solo dopo che ha avuto un incidente aereo? Tuttavia Vonnegut non si limita ad essere narratore: in un paio di occasioni compare anche come personaggio, è anche lui uno dei soldati americani tenuti prigionieri nel mattatoio. Come fa a sapere tutte queste cose di Billy se i due appartengono allo stesso mondo del romanzo? Solitamente il narratore si pone da un'altra parte rispetto ai personaggi delle sue creazioni, ma non in questo libro. Ricordiamoci che siamo nel '69.

    Viaggi nel tempo, pianeti sconosciuti, film visti al contrario (faccio riferimento ad una delle pagine più belle del libro, quando Billy guarda un film di guerra al contrario e ce lo racconta come se fosse veramente così che sono andate le cose: con i missili che vengono risucchiati dagli aerei e via dicendo)... ma quando è che viene il bombardamento di Dresda?! Ecco, entriamo in contatto con questo che è l'episodio più importante nel bel mezzo della festa per i diciotto anni di matrimonio di Billy e Valencia. Qui ci sono tutti i personaggi principali -tra quelli che sono sulla Terra -della vita di Billy dopo la guerra: gli ottici suoi colleghi, lo scrittore di fantascienza Kilgore Trout e anche il figlio che sarebbe poi diventato un Berretto Verde impegnato nella guerra del Vietnam. Mentre il protagonista ascolta l'esibizione di un quartetto vocale inizia a sentirsi a disagio. Ma non capisce perché si senta male, allora si allontana dalla festa e riflette, “Billy pensò intensamente all'effetto che il quartetto aveva avuto su di lui e scoprì che c'era un collegamento con un'esperienza che aveva fatto molto tempo prima. Non viaggiò nel tempo sino a rivivere quell'esperienza. La ricordò vagamente così:” E qui ci viene raccontata l'esperienza dei soldati rinchiusi nel bunker del mattatoio mentre la città viene rasa al suolo e poi la loro uscita all'aria aperta, qualche giorno dopo. Dunque quello che dovrebbe essere il cuore del romanzo non viene affrontato direttamente, ve lo avevo detto all'inizio che questo libro era ben di più di un singolo fatto.

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    Recensione di Mattatoio n. 5 diVincenzo Federico è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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  5.  Mi sono sempre interessato alle leggende metropolitane, quelle storie a volte poco credibili che si sentono in giro ma di cui non si conosce di preciso la fonte. Anche nel vostro quartiere girava un furgoncino bianco che rapiva i bambini? Mi interessa soprattutto come la gente le diffonda con la massima serietà pur non avendo la minima prova della veridicità del fatto. Il web 2.0 attuale, quello dove ognuno esiste in quanto essere che condivide qualcosa con qualcun altro, è enorme piazza in cui raccontare storie e dunque anche un focolaio di fenomeni virali potentissimo, proprio come è stato fino ad ora il passaparola per le leggende metropolitane (e in generale per il senso comune ampiamente inteso). Se qualcuno racconta bene una storia, o meglio ancora pubblica la foto giusta con la didascalia giusta, questa può raggiungere milioni di utenti in poche ore. Ed essere creduta vera. In maniera impressionante viene a crollare la barriera tra reale e finto, condividiamo qualcosa di forte anche senza verificare la fonte, siamo disposti a credere alle storie più incredibili se queste sono in sintonia con quello che già pensiamo. Per questo internet è un luogo dove è facile rafforzare le proprie convinzioni: vi si trova tutto e il contrario di tutto.
    Ma non mi soffermo su questo; un'altra barriera che viene a crollare è la distinzione tra scrittore e narratore. Una persona che ha un po' di confidenza con i testi narrativi sa benissimo che chi scrive non è la stessa figura di chi narra una storia: Conan Doyle non è Watson e Mellville si chiama Herman e non si faceva chiamare Ismaele nella vita reale. Tuttavia questa consapevolezza sembra venir meno su internet e specialmente su Facebook, senza dubbio il più grande luogo dove la gente racconta e condivide storie. Dato che il mondo dei social nerwork è prevalentemente la casa dell'emotività, dell'espressività, se io scrivo -divento dunque un narratore – vengo anche percepito come il portatore di un'esperienza che mi ha coinvolto, chi legge non sa se sto parlando (o condividendo) il pensiero di un amico o una pagina che ho visto e che mi ha colpito; spesso non sa neanche se le parole che uso sono mie o di qualcun altro (non credo che Morrissey adori usare i social network a questo punto!). È un tipo di rapporto con il pubblico che solitamente non riguarda la scrittura narrativa: nessuno crede che Manzoni avesse conosciuto Renzo e Lucia o che Camilleri sia il confidente del commissario Montalbano. Oltretutto quello che dicono i personaggi può non essere il pensiero dello scrittore. È un tipo di rapporto con il pubblico più vicino al mondo musicale, in particolare di generi emotivamente veri come la canzone d'amore o il rap. Qui sì che ci aspettiamo che chi canta abbia vissuto quello di cui sta parlando, che Ramazzotti sia sempre innamorato o Fabri Fibra sempre incazzato. Ecco, vengono a cadere le convenzioni che contraddistinguono l'esperienza della lettura; quello che Umberto Eco chiama patto finzionale. Io non posso credere che ogni cosa che leggo sia vera! Devo saper riconoscere i generi. Questo purtroppo è un problema abbastanza diffuso, non so se ricordate quando qualche anno fa la Cei si schierò contro “Il codice da Vinci” dichiarando che era pieno di falsità... una grande polemica quando sarebbe bastato dire la verità, cioè è un romanzo, non un testo di Storia!
    Faccio un esempio prima di diventare troppo astratto: questa storia gira abbastanza su Facebook e ogni volta che la incontro, trovo sempre commentatori che esprimono i loro pensieri (pardon, le loro emozioni) come se la storia fosse reale, mentre altri attaccano: ma che roba è, non può essere vera! Pochi solitamente leggono il testo per quello che è: un racconto di finzione, strappalacrime. Ci sembra meno toccante se sappiamo che non è successo realmente? Abbiamo bisogno delle storie vere per potere avere a che fare con i nostri sentimenti? La tv sembra averci educato in questa direzione e anche per questo non credo sia casuale l'invasione di video dei talent show con personaggi portatori di vissuti tragici condivisi sui social network.

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    Dalle leggende metropolitane ai post su Facebool diVincenzo Federico è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale.
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  6. Ho tradotto qualche paragrafo significativo del libro I formed a band ad uso e consumo di chiunque ne sia interessato. Potete condividerla con chi volete, l'importante è che non spacciate la traduzione come opera vostra ma citiate Vincenzo Federico come traduttore e che non la utilizziate per ottenerne profitto. 
    Buona lettura! Se qualcuno fosse interessato ad altri brani del volume può contattarmi.

    [All'edizione del 2007 del Monolith Festival di Denver, Eddie Argos sta parlando con Anton Newcombe, dei Brian Jonestown Massacre. La conversazione prende una piega inquietante, quando...]

    “Fortunatamente in quel momento, riportando un po' di necessaria realtà a quello che stava succedendo, arrivò un addetto del festival che mi chiese di firmare un modulo per autorizzare la trasmissione in diretta del nostro concerto alla radio.

    Anton, abbassando la copia del suo album, chiese se ci fosse stato anche per lui un modulo da firmare. L'addetto si scusò e gli disse che la sua band avrebbe suonato troppo presto nel corso della giornata per essere parte di ciò che sarebbe stato trasmesso del festival.

    Questo avrebbe imbarazzato alcune persone, ma Anton semplicemente lo ignorò, mi guardò e disse: “Già, capisco. Non siamo proprio un gruppo commerciale come voi”.

    Non avrei dovuto permettere che questo mi colpisse. Anton stava chiaramente dicendo così perché voleva sentirsi meglio per il fatto di non passare in radio. Tuttavia come commento mi aveva punto veramente.

    Aveva ragione, io ero in gruppo più commerciale di quello in cui era lui -ad esempio noi non abbiamo canzoni con titoli come “Frocio automatico per le persone” [Auto-Matic faggot for the people”, aggiunge faggot, “frocio” al titolo di un disco dei R.E.M. n.d.t.].

    Era semplicemente che tutti i miei dischi preferiti sono stati fatti o da persone strane che stavano rinchiuse nelle loro camere da letto a fare musica per loro stessi, sconosciuti gruppi punk o artistoidi lunatici e nonostante io non sia nulla di queste cose non avevo mai pensato che ciò che gli Art Brut stessero facendo fosse commerciale. Da qualche parte nella mia psiche classificavo noi con quei gruppi.

    Tuttavia non mi sentivo colpito perché vedevo la parola commerciale come un vero e proprio insulto. Ogni gruppo, al di là di quello che possano dire, vuole essere di successo per quanto è possibile e vuole essere ascoltato da tante più persone possono raggiungere. Anton per esempio, abbastanza ovviamente, avrebbe voluto essere passato alla radio. Certamente io voglio vendere vagonate di dischi e diventare ricco e famoso. Capisco che se voglio che questo accada devo essere maggiormente accettato dal mainstream. Vorrei che quello che gli Art Brut stavano facendo diventasse commerciale. Vivo nella speranza che arrivi un giorno in cui un uomo che urla su un frastuono punk diventi di moda.

    Quello che realmente mi aveva fatto arrabbiare del commento di Anton, era che mi aveva fatto comprendere che con il nostro ultimo album avevo veramente provato ad essere commerciale: non avevo scritto per me stesso ma avevo provato a scrivere per un pubblico più ampio e facendo così avevo sacrificato qualcosa.

    Suonare “Direct hit” per milioni e milioni di persone al Late Night with Conan O'Brien era stata una sensazione meravigiosa. Ma ora mi stavo chiedendo quanto mi sarei sentito meglio se, al posto di cantare il testo del mio cinico (e alla fine futile) tentativo di hit, avessi cantato una canzone su qualcosa che mi interessasse per davvero o su una storia vera; qualcosa che mi definisse come una persona e contenesse la mia personalità.

    Ero riuscito con successo a scrivere canzoni come queste per il primo disco senza nemmeno pensarci. Dunque, in un certo momento durante il processo di scrittura di “It's a bit complicated” qualcosa è andato storto in me. Le mie intenzioni erano confuse. Avevo intravisto la possibilità di una carriera come musicista e la volevo raggiungere senza neanche pensare che cosa mi piacesse realmente nell'essere in un gruppo: la connessione a un livello personale che stabilivo attraverso i miei testi con le persone.

    Mi piace che le persone vengano da me dopo che abbiamo suonato e mi parlino delle loro Emily Kane o che mi raccontano che loro sono preoccupati per il loro fratelli, come lo sono io per il mio. Credo sempre che i concerti degli Art Brut dovrebbero essere come una riunione tra amici -possibilmente molto ampia – e, ironicamente, provando a rendere le nostre nuove canzoni più universali, avevo in qualche modo lasciato fuori l'elemento che lo rendeva possibile.

    Quella cosa che avevo l'impressione mancasse alle canzoni che avevamo suonato da “It's a bit complicated” ero io. Ero determinato che con il mio prossimo album avrei corretto questo aspetto e e avrei messo più me stesso possibile nei testi.

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  7. Domenica 20 settembre i Ministri hanno presentato il loro album Cultura generale alla Feltrinelli di Genova, con un'intervista e un concertino acustico. Il gruppo ha risposto, in maniera molto intelligente, alle domande dell'intervistatore e del pubblico ritornando anche su uno dei punti più dolorosi per gli appassionati di musica liguri: a Genova mancano locali dove suonare. La scelta dei sei pezzi proposti in acustico è stata interessante: Cronometrare la polvere, Idioti, Il giorno che riprovo a prendermi, Vivere da signori, Cultura generale  e Sabotaggi. Interessante perché -a parte Il giorno che riprovo a prendermi, gli altri pezzi sono molto urlati e rumorosi, ma abbiamo sentito che suonano molto, molto bene anche solo con una chitarra e le percussioni!
    Rispondendo ad una domanda sulla rabbia nelle loro canzoni, il gruppo ha dato una risposta ad una delle mie (poche) perplessità su di loro: a volte sono proprio ridicoli quando urlano; Vivere da signori e Macchine sportive sono quasi fastidiose. Ecco, nelle parole del gruppo, quei pezzi sono volutamente grotteschi e questo non me li fa piacere, ma capire sì.
    Poi il giorno dopo ci sarebbe stato Vacca. Che è un rapper che qualche anno fa ha pubblicato Faccio muovere i culi. Lunedì pomeriggio dovevo essere in centro e sarei potuto passare dalla Feltrinelli, sono molto curioso di tutto quello che gravita attorno alla musica e ho ancora un bellissimo ricordo di un live di Frankie Hi Nrg e delle potenza dei bassi sull'asfalto del parcheggio della Foce una ventina di anni fa. E poi ero curioso di vedere che razza di gente ci sarebbe stata.
    Entro e non sento nulla di particolare, se non un pezzo rap che gira sul sistema audio al solito volume. Salgo i piani e vedo una fila di ragazzi e ragazzi dai 13 ai 20 anni circa con in mano il cd, alcuni stanno già scendendo le scale con il disco aperto e l'aria soddisfatta. Ma continuo a non sentire nulla. Poi capisco, e subito dopo vedo il cantante con un bel turbante di dread seduto ad un banchetto, con la gente che gli sfila davanti, scambia due parole e fa qualche foto. Fa presenza e basta.
    Perché per lui non hanno organizzato un pomeriggio con canzoni e domande? Qualche risposta ce l'ho ma preferisco camuffarla sotto forma di domande. Forse al suo pubblico non interessa veramente quello che ha da dire? Si sarebbero fermati per sentirlo raccontare di come è registrare un disco in Giamaica? Il giorno prima i Ministri sono stati molto bravi nel raccontare lo studio di Berlino in cui hanno lavorato, hanno parlato degli arrangiamenti e del risultato che ne è uscito, meno prodotto degli altri lavori. Hanno pure corretto l'intervistatore sul fatto che solo la parte strumentale sia stata registrata in presa diretta. Non si potevano fare domande e risposte anche con Vacca? Oltre a condividere video, come vive la musica il pubblico del rap? Chi è venuto qui e ha speso dei soldi per avere un disco autografato è rimasto totalmente soddisfatto? Insomma c'è pensiero oltre al Minchia Zio?
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  8. Da amante di Borges devo dire di essere nella migliore condizione per scrivere questa recensione: I formed a band di Eddie Argosè un libro che presumibilmente nessuno di voi lettori avrà letto, dal momento che è stato venduto tramite il sistema del crowdfuning direttamente dalla casa editrice Lo Fi Punk Rock Motherfucking Press che è praticamente la costola editoriale di Eddie Argos. Parla inoltre di un gruppo che presumibilmente solo in pochi avranno ascoltato (male, molto male: qualcuno si sta accorgendo in ritardo del loro grande valore. 
    Un libro dedicato dunque alla storia di un gruppo non troppo conosciuto, pretenzioso?
    Eddie Argos in realtà ha iniziato a celebrare la grandezza dei suoi Art Brut nel momento stesso in cui il primo singolo, Formed a band, è stato pubblicato: “diventeremo la band che scriverà una canzone che farà andare d'accordo Israele e la Palestina...una canzone universale come Tanti auguri a te” recitava la strofa di quel gran pezzo che rivelò la voce con cui Eddie cantava ai pochi che lo comprarono o che lo sentirono da qualche parte. Già aver formato una band è stato un grande traguardo per una persona che ha sempre avuto il sogno di diventare una pop star, ma le cui prime uscite sul palco con gli Art Goblins erano accompagnate da un aspirapolvere nel cui sacco Eddie si nascondeva se il concerto andava particolarmente male... ma le esperienze con questo primo gruppo, che nel libro sono molto sottovalutate rispetto alla realtà, furono anche positive dal momento che pubblicarono anche un 7”, anzi mezzo considerato che era un cosiddetto split, cioè un disco condiviso con un'altro gruppo: una facciata per uno! La volontà di costruire una leggenda che si coroni con la nascita degli Art Brut fa sì però che, come già accennato, l'esperienza con gli Art Goblins sia molto minimizzata.
    Poi ecco il trasferimento a Londra e la ricerca di nuovi componenti per una band, dato che i primi compagni di musica avevano scelto di terminare gli studi e di dedicarsi a lavori normali o ad altri progetti musicali. L'incontro con Chris Cincillà avviene, come gran parte degli eventi narrati nel libro, all'insegna dell'alcool: i due erano ad una festa in casa di uno dei membri della band Ciccone e andarono in giro di notte alla ricerca di altro da bere. Non trovarono nulla, ma Chris promise di contattare Eddie per fondare un gruppo. Gli elementi pian piano si sommano: Eddie porta con sé il suo vecchio compagno Ian Catskilkn mentre con Chris è già presente Freddy Feedback (non so se ve lo siete già chieste e in questo caso anticipo il vostro dubbio: non si tratta di veri nomi ma di pseudonimi!), mentre Mikey B arriverà solo dopo che un ragazzo che era nel gruppo solo perché era l'unico a possere una batteria lascerà il posto.
    Fino a che il gruppo prova in salette male attrezzate, dove nessuno riesce a sentire realmente il suono globale, Eddie è sicuro di sé: quando invece bisognerà andare in una vera sala prove perché Keith Top of The Pops (tranquilli, rileggetevi quello che ho scritto nella precedente parentesi!) vuole fare seriamente col gruppo, allora ci sarà qualche problemino. All'inizio Keith non credeva che quelle che stava sentendo fossero le vere potenzialità della voce di Eddie, ma invece così era; nella canzone che nacque da quelle prime registrazioni in una vera sala prove, Formed a band, Eddie Argos ha voluto immortalare la sua risposta alle prime osservazioni stupite sul suo modo di cantare “yes, this is my singing voice, there's no irony, no rock and roll, I'm just talking to the kids”. Il primo singolo con la Rough Trade, un singolo ed un album con la Fierce Panda, i tour anche all'estero: il sogno di diventare una pop star si stava avviando, Emily Kane arrivò al 41° posto, ad un solo passo dalla possibilità di venire eseguita dal gruppo a Top of The Pops! Un'occasione sprecata, così come sprecata è stata la firma alla EMI in un periodo in cui la casa discografica non aveva energie da concentrare sulla band.
    Nell'epilogo al libro Eddie parla, con una certa amarezza, di come la storia della band potrebbe essere definita come una serie di occasioni perdute, di sogni di successo intravisti e poi subito svaniti. È difficile capire bene quanta delusione e quanto compiacimento Eddie provi nel ripercorrere le sue vicende con gli Art Brut: l'emozione dei concerti, delle risse con gli altri gruppi e delle sbornie fenomenali c'è tutta, così come il piacere dell'appassionato di musica che può finalmente avere dischi gratis dall'etichetta con cui ha appena firmato. Ma allo stesso momento c'è anche il desiderio non realizzato di essere una vera star, documentato dall'aver pubblicato un best e un volume che raccoglie i testi di tutte le canzoni, opportunamente annotate: queste sono cose che solo un gruppo di successo fa (e nelle note del best Art Brut Top of The Pops questo è spiegato benissimo!). Ecco, nel momento in cui il gruppo ha firmato con la EMI queste speranze sembravano dover diventare realtà: la band aveva iniziato a pensare di poter scrivere dei pezzi pop con le chitarre per poter entrare nel cuore della gente; il progetto di pubblicare un ep dal suono grezzo, prodotto dal violinista dei Pulp viene accantonato ed Eddie inizia a scrivere canzoni meno personali, ma di cui comunque essere fiero. Dopo la fine dell'avventura con la major, il gruppo ritrova il suo spirito punk: senza alcun pregiudizio ecco che la voglia del vero successo e la voglia di suonare, di essere puri stanno bene l'una affianco all'altra; nell'avventura musicale degli Art Brut le due ottiche si alternano e convivono anche in It's a bit complicated, l'album pop con la EMI. Molto sinceramente Eddie non rimpiange i tempi in cui si nutrivano quasi solo di ciò che trovavano nei camerini.
    Eravamo rimasti all'idea di tornare a se stessi, ad essere dei punk che suonano, che pubblicano quello che vogliono e che vogliono avere a che fare con gente che sia come loro. Due epifanie aiutano la band ad uscire dal momento difficile della rottura con la casa discografica: una discussione con Anton Newcombe dei Brian Jonestown Massacre e la visione di un concerto dei Muse in Francia.
    Per sapere cosa è successo in questi due eventi però dovete fare di tutto per procurarvi il libro.

    Fatto sta che il risultato è un nuovo lavoro che DEVE essere prodotto da Frank Black (sapete già cosa voglio dirvi quando apro una parentesi...) dei Pixies e in questo caso il sogno diventa realtà. Il volume si chiude con questa esperienza: Frank produrrà poi anche l'ultimo lavoro della band e firma la prefazione al libro. Posso dirlo? La presentazione è francamente inutile, ma questo a Frank Black lo si può pure perdonare.
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  9. Sabato sera ero in centro e, dato che avevo visto già nei giorni scorsi, che c'era un festival ai Giardini di Plastica, ho pensato di passare di lì e guardare di cosa si trattasse. Si chiamava Cresta, festival della creatività stanziale e già dai giorni precedenti sentivo venir su di lì un bel po' di suoni mentre salivo da piazza Sarzano a Carignano. Sabato però c'era qualcosa di diverso, interno al festival o meno non lo so: era la manifestazione "Oltre il Juke box", un concorso musicale che -come ho avuto modo di sentire nel corso della serata -era già una grande realtà tra gli anni '80 e '90.
    Non mi soffermo sulla qualità musicale dei singoli perché non gli ho dedicato le opportune attenzioni, ma ho gradito molto gli hamburger, buoni ed economici!. Mi ha fatto però piacere vedere un concerto vivo e positivo nel cuore di Genova. 
    Sono poi passato più tardi e ho sentito l'esibizione del Grande Blek gruppo genovese molto attivo tra la fine degli '80 e la prima metà dei '90 (e che sinceramente non conoscevo). L'unico difetto della serata è stato il citarsi un po' troppo addosso: i vari presentatori parlavano troppo dei bei tempi andati, molte, troppe parole tra un'esibizione e l'altra! 
    Perché ho scritto queste poche righe, nemmeno tanto approfondite? Perché io c'ero ma, come ha detto giustamente uno dei presentatori -non azzardo nomi per non fare brutta figura, nella speranza che qualcuno vicino all'organizzazione dell'evento trovi questo mio articolo - è difficile che a Genova in molti si fermino ad ascoltare un concerto di qualcuno che non si conosce; io stesso conosco forse solo due o tre persone che lo farebbero, ma è importante farlo, le vibrazioni che dà la musica suonata con passione fanno bene, sempre. Un'ultima osservazione, un ringraziamento che ad un certo punto ero anche tentato di fare di persona ma poi non l'ho fatto: uno dei presentatori era un membro degli Altera, gruppo che una quindicina di anni fa ho sentito in un'assemblea di istituto al Lanfranconi e che all'epoca proponeva delle canzoni rock che avevano come testo delle poesie. Grazie per avermi fatto apprezzare la poesia associata al rock, e anche grazie per avere suonato tra le cover Annarella dei CCCP, era la prima volta che sentivo un pezzo di quel gruppo che avevo solo sentito nominare qua e là.
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  10. Un pomeriggio, negli anni dell'università
    ho comprato un libro di Hofmann -
    -il sintetizzatore dell'LSD-
    per caso:
    era il libro più spesso che costava meno:

    Oggi, al Porto Antico,
    ho capito il significato di un racconto
    che c'era dentro:
    parlava di un giardiniere cinese
    che curava il giardino dell'imperatore
    (o qualcosa del genere)
    e la morale era:
    chi è il proprietario del giardino?
    -) L'imperatore che lo ha comprato ma non lo ha mai visto né curato
    -) o il giardiniere? che lo cura ogni giorno?
    Oggi, al porto antico, ho capito il significato del racconto:

    Vedendo i bimbi delle signore velate, che giocano sulle altalene,
    vedendo i bimbi neri che parlano in italiano mentre giocano a calcio.

    Genova nous appartient!
    (dove nous vuol dire tutti noi che la viviamo)
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