Andare a fare un campo a Palermo partendo da varie città del nord Italia (Genova, Milano, Verona) è prima di tutto un’esperienza di viaggio. Per noi genovesi questo è iniziato nel pomeriggio di domenica 20 agosto, con lo spostamento in treno verso Milano passato a convincere un simpatico signore che certamente saremmo sopravvissuti al tragitto Milano-Palermo in pulmino. Alla fine del viaggio lui non era troppo convinto, ma noi avevamo comunque appuntamento al convento di Sant’Antonio per la cena e poi la partenza.
Durante le quindici ore necessarie per arrivare a Messina abbiamo avuto modo di conoscerci meglio iniziando dai nostri gusti musicali avendo portato ognuno una playlist da ascoltare; arrivati a Messina eravamo già un gruppo con un nome nostro, i Polentones, come ci battezza Loris di Verona. Nella città dello stretto, il convento della Madonna di Lourdes ci accoglie con un’atmosfera molto siciliana fatta di lavori in corso, mobili enormi, datati e a loro modo maestosi; passiamo la serata sulla terrazza panoramica che ci mostra il Continente con le sue luci con fra Giuseppe che ritroveremo l’indomani a Palermo mentre gli altri frati ci fanno sentire il loro calore tra mille domande e auguri per l’esperienza oramai alle porte.
Dopo aver superato la Cattedrale di Palermo che ci accoglie con la sua bellezza arabo-normanna, arriviamo al Collegio Giusino dove già troviamo le ragazze del gruppo scout di Casteldaccia. Dopo qualche minuto arrivano tutti gli altri partecipanti: siamo quasi trenta, tra cui nove frati provenienti dal Nord, dalla Puglia e dalla Sicilia; ancora qualche momento per le presentazioni e poi si comincia!
Ogni giorno ci viene offerta una catechesi che ha come tema la cura, sia quella di Dio verso di noi che quella nostra verso gli altri fratelli, le creature tutte e la collettività. Questa del primo giorno ci fa risuonare, attraverso le parole della teologa Giulia Lo Porto, alcuni concetti che ci guideranno per la città anche nei giorni successivi: prima di tutto la complessità, della Scrittura come di Palermo, che ci spinge a non accontentarci in modo passivo di ciò che abbiamo davanti ma ci invita a capire e a fare nostro il senso di quello che viviamo. Rispetto alla Scrittura questo significa indagare sempre la Parola, per non delegare agli altri la nostra vita spirituale. Già nel pomeriggio abbiamo guardato in faccia la complessità della città e a cosa può portare il non accontentarsi in modo passivo, andando nei luoghi di don Pino Puglisi.
La visita del quartiere di Brancaccio è stata senza dubbio il modo più forte per entrare nelle ferite della città; appena arriviamo nel centro “Padre Nostro” una stretta di commozione mi colpisce. Non è certo il primo centro di aggregazione che ho visitato, ma è sconvolgente il pensiero che chi lo ha voluto e amato abbia pagato con il sangue per una struttura così importante per la vita del quartiere, una di quelle strutture che normalmente gli assessori vogliono per i luoghi nei quali operano. Ci aiuta a capire questa situazione paradossale Pino Martinez, uno dei promotori del comitato intercondominiale con il quale don Puglisi iniziò a collaborare non appena arrivato a Brancaccio. Martinez sa che tutti conoscono don Puglisi ma chiede chi sappia dell’esistenza di questo comitato; Francesca, di Genova, ricorda che se ne parla in “Ciò che inferno non è”, il libro di d’Avenia su don Puglisi, ma non è importante dirlo, è comunque una realtà che andrebbe conosciuta maggiormente. Non si può, non si deve lasciare don Puglisi su un altare e guardarlo come un esempio straordinario di eroismo, Martinez e i ragazzi che conducono la celebrazione su di lui nel luogo del martirio lo hanno ben chiaro: migliorare il proprio quartiere è un’opera che tutti devono fare con i propri strumenti, una lotta di persone ordinarie. Martinez ci porta a vedere il luogo in cui sarebbe dovuta sorgere la scuola media, una delle grandi battaglie del quartiere, ma non è un giro semplice: la gente alle finestre ci osserva, qualcuno ci fa capire chiaramente che non siamo i benvenuti. Eppure in televisione le commemorazioni di chi ha combattuto la mafia sembrano sempre facili da vivere, sui libri non è mai scritto che la gente di Brancaccio è infastidita. Ma la mafia è come un prodotto tipico, sentirne parlare fuori da qui vuol dire già averne una versione snaturata. La presenza della criminalità, sempre pronta a ostacolare le opere in favore della città, viene raccontata anche quando si chiacchiera dei progetti di carità a Palermo: la mafia non ha piacere che ci si rivolga ad altri se non a lei stessa. Non è dunque facile prendersi cura della collettività e del luogo in cui si vive, questo viene chiarito dalla catechesi del padre comboniano Domenico Guarino e vale ovviamente anche per gli altri luoghi da cui proveniamo noi tutti i partecipanti; Mariagrazia e fra Francesco parlano della Taranto ferita dall’incuria di chi gestisce male l’Ilva e i suoi rifiuti, fra Luca che opera sulle strade del Cep di Genova, parla di un luogo ricco di solitudini e povero di servizi. Una costante dei nostri discorsi sulle città è la lontananza delle istituzioni, che ci viene esemplificata qui a Palermo dalla missione Speranza e Carità, fondata con l’ostinazione di fratel Biagio Conte, don Pino e tanti volontari e sorelle che si sono uniti con il tempo al loro progetto. Si tratta di una realtà grande ma non molto conosciuta, Valeria che abita a due passi da qui è un po’ a disagio nel confrontarsi con questo mondo che non aveva mai notato, pur avendolo dietro casa.
Abbiamo passato tre mattinate nei locali della missione, entrando in contatto con la buona volontà di un progetto che si vuole occupare degli ultimi della città, delle donne sole con i loro figli, desiderosi di affetto da chiunque glielo possa dare, dei migranti che cercano di rendersi utili prendendosi cura di questo luogo che ora abitano. Biagio Conte ha ritrovato la serenità nella sua vita quando si è reso conto che doveva costruire qualcosa per loro e così ha cominciato a chiedere con forza spazi non utilizzati vicino alla stazione dei treni; è questo il modo di prendersi cura dell’altro che ci mostra anche la catechesi di fra Francesco: mentre mi occupo del fratello è lui stesso che mi aiuta, come è successo anche a San Francesco che ritrova Dio e se stesso abbracciando il lebbroso.
Non è tutto rose e fiori nei locali per donne e in quelli per uomini della missione; con Luca, che a Milano fa il volontario in una mensa per poveri, si notano le grosse differenze con la realtà che lui conosce; enormi differenze di organizzazione emergono facendo confronti sia con i grandi numeri di utenti nella mensa milanese gestita da fra Carlo che con quelli più contenuti della mensa di Genova Voltri che fra Luca segue. Non è perfetta, ma le opere di gente ordinaria sono fatte per essere migliorate da altra gente ordinaria. Prima del pranzo ci scappa qualche sorriso quando dobbiamo ripetere le frasi di una preghiera di Giorgio la Pira declamata dal volontario Martino in un italiano approssimativo, per cui ci troviamo a pregare “per i fagioli abbandonati”. Martino è arrivato dall’est Europa cinque anni fa, dopo essere cresciuto in una comunità si è trovato in Sicilia per una vacanza nella quale gli hanno rubato tutto. Non aveva più nessuno a Budapest e nulla con sé, per cui ha iniziato a vivere nella missione, spendendosi per gestire il refettorio. Le realtà complesse hanno sempre dietro la loro facciata delle storie, conoscendo quella di Martino abbiamo continuato a sorridere durante le sue preghiere nei giorni successivi, ma con un profondo rispetto per lui.
Stare cinque giorni a Palermo significa anche girare la città alla sera (e nei pochi momenti di tempo libero durante le giornate!) e in questo Mario, palermitano innamorato della sua città, ci fa sapientemente da cicerone. Girare per le strade e attraversare “alla palermitana” fuori dalle strisce è reso più sicuro dallo sguardo vigile di Manuela, la capofuoco delle scout, sempre pronta agli angoli delle strade a verificare che tutti fossimo presenti… prima di tutto le sue compagne di fuoco; prima avevo usato la parola gruppo per definire le scout...ma fuoco è il termine esatto, dopo qualche volta che lo si sente non sembra poi più così strano! Ben presto facciamo capire a Mario che quello che più ci interessa a conclusione delle intense giornate sono luoghi dove gustare cannoli, granite o le altre strane specialità che emergono dai fumi del mercato della Vucciria. Sono altri prodotti tipici della Sicilia con cui è più piacevole avere a che fare, come quando ci troviamo a discutere sui migliori tipi di granita delle varie parti della Sicilia con Silvio, di Caltagirone, forte difensore della granita al cioccolato, impossibile da capire per me che vivo a Genova!
L’altra grande realtà che abbiamo incontrato è quella della cooperativa sociale “Al Revès” e del loro progetto di Sartoria Sociale nella quale sotto lo slogan “siamo tutti ex di qualcosa” sono accolte persone che non hanno avuto un percorso di vita lineare e che sono dunque uscite o mai entrate nel mondo del lavoro. Come dice la fondatrice Rosalba il vero problema spesso non è la mancanza di lavoro, ma il perché non si riesce a stare dentro un lavoro o non si riesce a rispettarne gli orari. Dall’orgoglio con il quale Francesco si presenta alla timidezza con cui Floriana fa riferimento all’errore che l’ha portata a fare servizio per sei mesi per la cooperativa, ognuno può dare il suo contributo, ognuno sa fare qualcosa o può imparare a farlo. Il sogno più bello è di due diciassettenni centrafricani (del Ghana e Gambia, non provo neanche a scrivere i loro nomi perché sbaglierei sicuramente) che già nel loro Paese cucivano e ora possono, forse, trovare aperta la possibilità per prendere una qualifica nel campo della sartoria in Italia, la Patria dell’alta moda. C’è sempre modo di allargare la rete dei contatti per la cooperativa, di modo da poter avviare nuovi progetti e chissà che la proposta di Chiara, che frequenta un liceo artistico a Palermo, di fare qualcosa per loro tramite la scuola non si trasformi in un qualcosa di concreto che possa aprire nuove strade!
Se riponiamo la nostra attenzione verso ogni prossimo, anche quello più in difficoltà, non possiamo trascurare tutto il Creato; fra Antonino ci ricorda il difficile compito dell’uomo che non può solo disporre del pianeta a suo uso e consumo, ma deve imparare a vivere in compassione con ogni creatura. La Chiesa si sta muovendo in questa direzione con decisione solo con Papa Francesco, ma è una strada che sarà sempre più importante percorrere.
Concludendo, cura ha anche significato ospitalità e oltre ai tanti episodi già ricordati non si può dimenticare chi si è occupato del nostro cibo materiale, cioè fra Salvatore e i frati che ci hanno invitato a cena nella Curia e nel convento di S. Antonino e chi si è occupato del cibo spirituale, cioè fra Pinuccio che ci ha sempre sostenuto celebrando quotidianamente e il ministro Provinciale fra Alberto Marangolo

...Al rientro durante la tappa a Messina abbiamo passato un’altra serata con fra Giuseppe e fra Carmelo, e ho scoperto anche io le meraviglie della granita al cioccolato con panna e brioche!
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