1.  È seduto in uno dei posti da quattro, quello vicino al finestrino nella direzione di viaggio, il posto che prende chi arriva quando il treno è semivuoto. E infatti sono poche le persone che viaggiano verso il centro di Genova alle 10 del mattino, perciò anche se è salito a Genova Sestri Ponente- Aeroporto che è a più di metà del tragitto, più di metà carrozza è vuota. Meglio così, perché gli serve tutto lo spazio che ha a disposizione dal momento che davanti a sé ha un trolley grosso, non uno di quelli delle dimensioni di un bagaglio a mano. Lo ha comprato una settimana prima ed è ancora quasi nuovo; il suo grigio brillante è appena scalfito in seguito ad un incidente con il cameriere dell’albergo a 4 stelle di Palma di Maiorca dove erano andati. Non se l’aspettava una vacanza a metà aprile, ma ha colto l’occasione appena l’ha vista realizzabile.
    In una normale serata di lavoro, Mario aveva accettato una proposta da Serena al bar dove lui lavorava tre sere a settimana. Un bar in Corso Italia, a Genova, di quelli dove mettere un cocktail a un euro in più non è un problema, con i clienti giusti. Si vedeva che Serena era una strana, una che vuole divertirsi ma al primo problema molla lì tutto. Stava con un calciatore, un ragazzino che doveva ancora imparare a usare i tanti soldi a disposizione. Ma lei non se ne stava approfittando. Era già esperta nel gestire i tanti soldi a disposizione perché era figlia di un dirigente di una compagnia di traghetti. Una coppia omogenea se si fosse guardato solo ai portafogli. Purtroppo per loro però erano omogenei anche nella poca fedeltà e fu così che in quella sera Serena si ricordò delle ultime scappatelle del fidanzato, bevve due Negroni di troppo e invitò Mario a fare una vacanza insieme, solo per conoscersi meglio. Lei era una cliente abituale del locale, da sola o in coppia si fermava spesso al bancone. Inoltre era la cugina di un compagno del liceo di Mario. Insomma, sconosciuta al punto giusto da essere intrigante. Mario era ben disponibile a partire, ma non aveva un bagaglio adeguato e dunque aveva dovuto comprare un trolley subito, il mattino dopo, prima di partire nel pomeriggio. Il volo e l’albergo erano già stati prenotati: Serena sarebbe dovuta andare con una sua amica, ma senza troppi problemi quando aveva fatto la proposta al barista aveva subito telefonato alla sua amica Chiara per comunicarle che aveva un altro compagno di viaggio. Alle 8 del mattino Mario era davanti al centro commerciale della Fiumara, ancora chiuso, per comprare un trolley e dei vestiti adeguati a una settimana dalle Baleari. Non voleva fare una brutta figura, aveva poche ore per preparare tutto e non si era neanche ricordato che i negozi avrebbero aperto solo alle 9. Non aveva faticato per farsi cambiare il turno e prendere ferie: appena aveva raccontato dell’invito, i suoi colleghi si dimostrarono subito d’accordo sul fatto che non potesse perdere questa occasione.
    È abbronzato in viso, ma non si è scottato. È riuscito a mantenere una abbronzatura uniforme anche sul resto del corpo, anche se non si vede. L’albergo che Serena aveva prenotato aveva una piscina da 25 metri e un solarium nel caso gli ospiti avessero voluto l’abbronzatura con qualunque condizione meteorologica. Loro non ne ebbero bisogno perché trovarono sempre sole e caldo. Appena scesi dall’aereo, alleggerirono il loro abbigliamento lasciandosi solo una felpa leggera sulla maglia a maniche corte, e per tutto il resto del soggiorno non ebbero quasi mai bisogno di mettere uno strato in più. Mario aveva sperato che il viaggio includesse del sesso, ma lei gli fece subito capire che lui era lì per sostituire l’amica e non il fidanzato ma nonostante questo Serena si rivelò comunque una piacevole compagna di viaggio. Prendere il sole sul bordo della piscina, chiacchierano della bella società genovese era un’attività a cui si dedicavano volentieri, tra una nuotata e un cocktail. Serena si concedeva spesso dei soggiorni di questo tipo e non aveva fretta di trovare un lavoro finché le cose andavano bene per i suoi.
    Da come guarda le foto sullo schermo del telefono si capisce che è stata una settimana piacevole, ha un grande sorriso che si delinea chiaro, muovendo la linea dei baffi e scorrendo il dito non passa mai meno di dieci secondi a contemplare ogni immagine.
    Non aveva mai fatto sci d’acqua, per cui quando lei glielo propose, il primo giorno di mare, rifiutò preferendo rimanere sul motoscafo a fotografare lei, che invece si era dimostrata a suo agio con la velocità e gli schizzi d’acqua. Avevano visitato le altre isole dell’arcipelago e quando avevano cenato a Minorca, lei, raccontandogli dei suoi programmi per l’estate, si era fatta prendere dall’entusiasmo, gli aveva preso la mano e gliel’aveva stretta, dandogli l’impressione che potesse esserci spazio anche per lui nelle isole dell’Egeo e magari con un ruolo diverso. Quando Marco aveva proposto di farsi fare una foto al tramonto lei aveva sospirato un po’ troppo prima di acconsentire, ma dal sorriso di entrambi non si percepiva alcuna tensione. Poi i tramonti, le albe, le colazioni in albergo e le tante foto di lei con un due pezzi rosso che seguiva in maniera armoniosa le sue curve, lasciando libera tutta quella pelle già abbronzata. Ma Marco non avrebbe inventato storie troppo inverosimili sul loro soggiorno. Serena chiacchierava spesso anche con gli altri suoi colleghi e sarebbe stato fin troppo facile smascherarlo e pregiudicare ogni esperienza futura. Mario aveva il presentimento che la ragazza fosse una di quelle che aspetta solo il minimo pretesto per litigare e troncare i rapporti. Doveva stare molto attento e trovare il giusto modo di mantenere la complicità con lei.
    La camicia che indossa è una di quelle da turista, di cotone bianco, a mezze maniche. Si vede che è stropicciata e macchiata, sopra ha messo solo il giacchino pesante. Arrivato all’ultimo giorno della vacanza, si era reso conto di non aver portato abbastanza vestiti; la valigia era stata riempita di regali da portare agli amici e l’unica maglia vagamente presentabile era stata oramai utilizzata per proteggere una bottiglia di vino stipata nel bagaglio. Rimaneva la camicia bianca che aveva comprato ad un mercatino due giorni prima; l’aveva usata solo una sera, quando avevano ballato con una comitiva di inglesi ubriachi di birra già dalle sei di sera. Lui aveva ballato a petto nudo, lei con un costume a pailettes. La camicia era rimasta appoggiata in maniera frettolosa su una sedia del disco-pub. Era la cosa più improbabile ma meno sporca che avesse con sé al momento di fare il bagaglio per tornare in Italia. Mentre stava finendo di abbottonarla un inserviente dell’albergo aveva bussato con violenza alla porta della camera per comunicare che il taxi che li avrebbe portati in aeroporto era giù che aspettava. Mario chiuse velocemente la valigia e quasi la tirò al cameriere, facendola scorrere sulle piccole ruote. Per dispetto o per distrazione, il cameriere non fu abbastanza reattivo da riuscire a sollevarla mentre era ancora in movimento e così il trolley si rigò leggermente contro uno spigolo del letto.

    Ha gli occhiali a specchio che coprono due occhi arrossati e poco aperti, che non vogliono ancora chiudersi ma che non vedono l’ora di farlo in una situazione di relax. Prima del doppio volo da Palma de Maiorca a Barcellona e da Barcellona finalmente a Genova, c’era stata una lunga notte di isteria, nella quale Serena aveva parlato delle modelle che il fidanzato frequentava quando era con la squadra, del senso di colpa che la colpiva ogni volta che parlava di lavoro e della sua amicizia particolare con un’amica d’infanzia. Mario aveva controbattuto con storie divertenti su alcuni clienti del bar, con lo scopo di ammorbidire la discussione e dare alle scappatelle una dimensione più goliardica, ma ben presto gli fu chiaro che la strategia era sbagliata e lei non aveva alcuna voglia di ascoltare. Voleva solo scaricare, come una nuvola gonfia d’acqua, tutti quei pensieri che non voleva riportare a Genova e che non era riuscita a lasciare sulle isole nelle belle giornate di vacanza. Poco dopo l’alba, prima di spostarsi verso l’aeroporto, la furia si era calmata e aveva telefonato al fidanzato, rilassata e con un tono di voce stranamente riposato dopo la notte insonne: lui sarebbe venuto a prenderla all’aeroporto di Genova e Mario, ovviamente sentendosi di troppo, la tranquillizzò dicendo che sarebbe tornato senza problemi in treno. In effetti non era neanche molto felice all’idea di dover condividere il viaggio anche con lui, Serena era stata vaga nel dire cosa il fidanzato sapesse del cambiamento dell’ultimo momento.
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  2. Sto leggendo Polvere di stelle, il libro di Simon Reynolds sul Glam (qui ne trovate un appassionato commento) e arrivato alle pagine su Raw power vi ho ritrovato le impressioni che avevo già avuto ascoltando il disco la prima volta: gli strumenti quasi non si distinguono, che frastuono!!!
    La vicenda che ha portato Iggy Pop a rimettersi alle redini del suo fallimentare gruppo e  le vicende del missaggio del disco stesso sono ben ricostruite dal libro di Reynolds che attinge ampiamente all'intervista a Iggy riprodotta nel libretto dell'edizione del 1997 del cd, vi invito a leggere direttamente quelle; qui accenno solo qualcosa per contestualizzare. 
    Ciò che colpisce subito del disco, problema ed elemento di fascino, è la sua violenza caotica. I volumi sono altissimi e questo fa sì che non si distinguano bene gli strumenti (chi ne capisce di qualità del suono definisce questo Loudness War, un fenomeno spesso associato alla compressione digitale delle tracce audio). Meno male che la chitarra si avventura poche volte fuori da riff e fraseggi blues perchè ogni suo sforzo di fare sentire i dettagli è frustrato da questo mix. Mentre ascolti Search and destroy, il pezzo che apre il lavoro, intuisci cosa sta facendo quel chitarrone distorto che spesso va a finire sotto la voce e al guazzabuglio basso-batteria. E la batteria...non mi pare ci sia un pezzo dove sia possibile riconoscerne tutti gli elementi!!! Spesso sono i piatti a rimanere impigliati in tutti gli altri suoni alti...che casino. La voce di Iggy, nelle volontà di chi aveva messo i soldi per produrre il disco doveva spiccare, non tanto per la sua bellezza ma per il carisma che emana. Infatti nel ''72 Tony Defreis aveva seguito il consiglio di David Bowie di tentare di recuperare Iggy Pop per fargli registrare un disco che ne avrebbe rilanciato la carriera dopo i due album flop degli Stooges; il cantante sarebbe dovuto essere un anti-intellettuale tipicamente americano, rude e violento... anche se nella copertina e nelle foto dell'album viene eccentuato un lato brillantinato e glam che male si adatta al personaggio...che non era neanche consapevole che quelle immagini sarebbero state usate a scopo promozionale!
    Visto così sembra quasi un tipico
    personaggio glam, ben integrato
    Mi ero fermato parlando di voce o di voci e magari sarà pure sembrato che almeno questa esca bene dalle casse dello stero... ma così non è! Nei brani più lenti, come Gimme danger e I need somebody dove i suoni sono più curati, ha un volume troppo alto che fa sì che quando Iggy raggiunge le note più alte la si senta un po' gracchiare... e questo aggiunge ai brani un'atmosfera da strip club di pessima fama! E l'unico altro brano con i suoni curati, Penetration,  che addirittura ha una celesta (Iggy nelle note di copertina si vanta del fatto che i Black Sabbath non avrebbero mai osato tanto!) ha le seconde voci che fanno "uh uh" perse tra la celesta stessa e tutti gli altri strumenti, pazzesco!
    Il mercato discografico ci ha abituato a delle riedizioni che a volte sono solo celebrative e altre invece riescono a dare un valore aggiunto a un album, magari restaurandone i suoni. Ebbene, questa che ho descritto è già la versione corretta! Sì, ma corretta da Iggy stesso nel 1997. Al cantante di Detroit era stata lasciata la libertà di produrre l'album ma in realtà la casa discografica non avrebbe messo in commercio quella roba e così diede a David Bowie il compito di rimettere mano al missaggio (mentre Iggy era stato allontanato a Los Angeles...poca correttezza senza dubbio!!); il risultato però non piacque al produttore e cantante: troppo pulito a suo dire, non faceva capire l'energia della band mettendo la voce in primo piano e facendo distinguere bene le parti di chitarra. Per farla in breve Iggy voleva questo casino! voleva i volumi spinti ai limiti della confusione! voleva insomma un disco difficile da difendere e che infatti praticamente nessuno difese. Lui ci rimase male ma non credo che ne rimase stupito. Nella seconda metà degli anni '90, dopo il grunge (e dopo che Iggy riguadagnò un  po' di fama e di ritorno di immagine grazie alla colonna sonora di Trainspotting) era il momento migliore per rimetterlo in circolazione nei suoi suoni originali, lo stesso pensiero lo ebbe anche Lou Reed nel riproporre Berlin quando parlare di eroina e usare suoni depressivi era prassi accettata. 

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  3. Andare a fare un campo a Palermo partendo da varie città del nord Italia (Genova, Milano, Verona) è prima di tutto un’esperienza di viaggio. Per noi genovesi questo è iniziato nel pomeriggio di domenica 20 agosto, con lo spostamento in treno verso Milano passato a convincere un simpatico signore che certamente saremmo sopravvissuti al tragitto Milano-Palermo in pulmino. Alla fine del viaggio lui non era troppo convinto, ma noi avevamo comunque appuntamento al convento di Sant’Antonio per la cena e poi la partenza.
    Durante le quindici ore necessarie per arrivare a Messina abbiamo avuto modo di conoscerci meglio iniziando dai nostri gusti musicali avendo portato ognuno una playlist da ascoltare; arrivati a Messina eravamo già un gruppo con un nome nostro, i Polentones, come ci battezza Loris di Verona. Nella città dello stretto, il convento della Madonna di Lourdes ci accoglie con un’atmosfera molto siciliana fatta di lavori in corso, mobili enormi, datati e a loro modo maestosi; passiamo la serata sulla terrazza panoramica che ci mostra il Continente con le sue luci con fra Giuseppe che ritroveremo l’indomani a Palermo mentre gli altri frati ci fanno sentire il loro calore tra mille domande e auguri per l’esperienza oramai alle porte.
    Dopo aver superato la Cattedrale di Palermo che ci accoglie con la sua bellezza arabo-normanna, arriviamo al Collegio Giusino dove già troviamo le ragazze del gruppo scout di Casteldaccia. Dopo qualche minuto arrivano tutti gli altri partecipanti: siamo quasi trenta, tra cui nove frati provenienti dal Nord, dalla Puglia e dalla Sicilia; ancora qualche momento per le presentazioni e poi si comincia!
    Ogni giorno ci viene offerta una catechesi che ha come tema la cura, sia quella di Dio verso di noi che quella nostra verso gli altri fratelli, le creature tutte e la collettività. Questa del primo giorno ci fa risuonare, attraverso le parole della teologa Giulia Lo Porto, alcuni concetti che ci guideranno per la città anche nei giorni successivi: prima di tutto la complessità, della Scrittura come di Palermo, che ci spinge a non accontentarci in modo passivo di ciò che abbiamo davanti ma ci invita a capire e a fare nostro il senso di quello che viviamo. Rispetto alla Scrittura questo significa indagare sempre la Parola, per non delegare agli altri la nostra vita spirituale. Già nel pomeriggio abbiamo guardato in faccia la complessità della città e a cosa può portare il non accontentarsi in modo passivo, andando nei luoghi di don Pino Puglisi.
    La visita del quartiere di Brancaccio è stata senza dubbio il modo più forte per entrare nelle ferite della città; appena arriviamo nel centro “Padre Nostro” una stretta di commozione mi colpisce. Non è certo il primo centro di aggregazione che ho visitato, ma è sconvolgente il pensiero che chi lo ha voluto e amato abbia pagato con il sangue per una struttura così importante per la vita del quartiere, una di quelle strutture che normalmente gli assessori vogliono per i luoghi nei quali operano. Ci aiuta a capire questa situazione paradossale Pino Martinez, uno dei promotori del comitato intercondominiale con il quale don Puglisi iniziò a collaborare non appena arrivato a Brancaccio. Martinez sa che tutti conoscono don Puglisi ma chiede chi sappia dell’esistenza di questo comitato; Francesca, di Genova, ricorda che se ne parla in “Ciò che inferno non è”, il libro di d’Avenia su don Puglisi, ma non è importante dirlo, è comunque una realtà che andrebbe conosciuta maggiormente. Non si può, non si deve lasciare don Puglisi su un altare e guardarlo come un esempio straordinario di eroismo, Martinez e i ragazzi che conducono la celebrazione su di lui nel luogo del martirio lo hanno ben chiaro: migliorare il proprio quartiere è un’opera che tutti devono fare con i propri strumenti, una lotta di persone ordinarie. Martinez ci porta a vedere il luogo in cui sarebbe dovuta sorgere la scuola media, una delle grandi battaglie del quartiere, ma non è un giro semplice: la gente alle finestre ci osserva, qualcuno ci fa capire chiaramente che non siamo i benvenuti. Eppure in televisione le commemorazioni di chi ha combattuto la mafia sembrano sempre facili da vivere, sui libri non è mai scritto che la gente di Brancaccio è infastidita. Ma la mafia è come un prodotto tipico, sentirne parlare fuori da qui vuol dire già averne una versione snaturata. La presenza della criminalità, sempre pronta a ostacolare le opere in favore della città, viene raccontata anche quando si chiacchiera dei progetti di carità a Palermo: la mafia non ha piacere che ci si rivolga ad altri se non a lei stessa. Non è dunque facile prendersi cura della collettività e del luogo in cui si vive, questo viene chiarito dalla catechesi del padre comboniano Domenico Guarino e vale ovviamente anche per gli altri luoghi da cui proveniamo noi tutti i partecipanti; Mariagrazia e fra Francesco parlano della Taranto ferita dall’incuria di chi gestisce male l’Ilva e i suoi rifiuti, fra Luca che opera sulle strade del Cep di Genova, parla di un luogo ricco di solitudini e povero di servizi. Una costante dei nostri discorsi sulle città è la lontananza delle istituzioni, che ci viene esemplificata qui a Palermo dalla missione Speranza e Carità, fondata con l’ostinazione di fratel Biagio Conte, don Pino e tanti volontari e sorelle che si sono uniti con il tempo al loro progetto. Si tratta di una realtà grande ma non molto conosciuta, Valeria che abita a due passi da qui è un po’ a disagio nel confrontarsi con questo mondo che non aveva mai notato, pur avendolo dietro casa.
    Abbiamo passato tre mattinate nei locali della missione, entrando in contatto con la buona volontà di un progetto che si vuole occupare degli ultimi della città, delle donne sole con i loro figli, desiderosi di affetto da chiunque glielo possa dare, dei migranti che cercano di rendersi utili prendendosi cura di questo luogo che ora abitano. Biagio Conte ha ritrovato la serenità nella sua vita quando si è reso conto che doveva costruire qualcosa per loro e così ha cominciato a chiedere con forza spazi non utilizzati vicino alla stazione dei treni; è questo il modo di prendersi cura dell’altro che ci mostra anche la catechesi di fra Francesco: mentre mi occupo del fratello è lui stesso che mi aiuta, come è successo anche a San Francesco che ritrova Dio e se stesso abbracciando il lebbroso.
    Non è tutto rose e fiori nei locali per donne e in quelli per uomini della missione; con Luca, che a Milano fa il volontario in una mensa per poveri, si notano le grosse differenze con la realtà che lui conosce; enormi differenze di organizzazione emergono facendo confronti sia con i grandi numeri di utenti nella mensa milanese gestita da fra Carlo che con quelli più contenuti della mensa di Genova Voltri che fra Luca segue. Non è perfetta, ma le opere di gente ordinaria sono fatte per essere migliorate da altra gente ordinaria. Prima del pranzo ci scappa qualche sorriso quando dobbiamo ripetere le frasi di una preghiera di Giorgio la Pira declamata dal volontario Martino in un italiano approssimativo, per cui ci troviamo a pregare “per i fagioli abbandonati”. Martino è arrivato dall’est Europa cinque anni fa, dopo essere cresciuto in una comunità si è trovato in Sicilia per una vacanza nella quale gli hanno rubato tutto. Non aveva più nessuno a Budapest e nulla con sé, per cui ha iniziato a vivere nella missione, spendendosi per gestire il refettorio. Le realtà complesse hanno sempre dietro la loro facciata delle storie, conoscendo quella di Martino abbiamo continuato a sorridere durante le sue preghiere nei giorni successivi, ma con un profondo rispetto per lui.
    Stare cinque giorni a Palermo significa anche girare la città alla sera (e nei pochi momenti di tempo libero durante le giornate!) e in questo Mario, palermitano innamorato della sua città, ci fa sapientemente da cicerone. Girare per le strade e attraversare “alla palermitana” fuori dalle strisce è reso più sicuro dallo sguardo vigile di Manuela, la capofuoco delle scout, sempre pronta agli angoli delle strade a verificare che tutti fossimo presenti… prima di tutto le sue compagne di fuoco; prima avevo usato la parola gruppo per definire le scout...ma fuoco è il termine esatto, dopo qualche volta che lo si sente non sembra poi più così strano! Ben presto facciamo capire a Mario che quello che più ci interessa a conclusione delle intense giornate sono luoghi dove gustare cannoli, granite o le altre strane specialità che emergono dai fumi del mercato della Vucciria. Sono altri prodotti tipici della Sicilia con cui è più piacevole avere a che fare, come quando ci troviamo a discutere sui migliori tipi di granita delle varie parti della Sicilia con Silvio, di Caltagirone, forte difensore della granita al cioccolato, impossibile da capire per me che vivo a Genova!
    L’altra grande realtà che abbiamo incontrato è quella della cooperativa sociale “Al Revès” e del loro progetto di Sartoria Sociale nella quale sotto lo slogan “siamo tutti ex di qualcosa” sono accolte persone che non hanno avuto un percorso di vita lineare e che sono dunque uscite o mai entrate nel mondo del lavoro. Come dice la fondatrice Rosalba il vero problema spesso non è la mancanza di lavoro, ma il perché non si riesce a stare dentro un lavoro o non si riesce a rispettarne gli orari. Dall’orgoglio con il quale Francesco si presenta alla timidezza con cui Floriana fa riferimento all’errore che l’ha portata a fare servizio per sei mesi per la cooperativa, ognuno può dare il suo contributo, ognuno sa fare qualcosa o può imparare a farlo. Il sogno più bello è di due diciassettenni centrafricani (del Ghana e Gambia, non provo neanche a scrivere i loro nomi perché sbaglierei sicuramente) che già nel loro Paese cucivano e ora possono, forse, trovare aperta la possibilità per prendere una qualifica nel campo della sartoria in Italia, la Patria dell’alta moda. C’è sempre modo di allargare la rete dei contatti per la cooperativa, di modo da poter avviare nuovi progetti e chissà che la proposta di Chiara, che frequenta un liceo artistico a Palermo, di fare qualcosa per loro tramite la scuola non si trasformi in un qualcosa di concreto che possa aprire nuove strade!
    Se riponiamo la nostra attenzione verso ogni prossimo, anche quello più in difficoltà, non possiamo trascurare tutto il Creato; fra Antonino ci ricorda il difficile compito dell’uomo che non può solo disporre del pianeta a suo uso e consumo, ma deve imparare a vivere in compassione con ogni creatura. La Chiesa si sta muovendo in questa direzione con decisione solo con Papa Francesco, ma è una strada che sarà sempre più importante percorrere.
    Concludendo, cura ha anche significato ospitalità e oltre ai tanti episodi già ricordati non si può dimenticare chi si è occupato del nostro cibo materiale, cioè fra Salvatore e i frati che ci hanno invitato a cena nella Curia e nel convento di S. Antonino e chi si è occupato del cibo spirituale, cioè fra Pinuccio che ci ha sempre sostenuto celebrando quotidianamente e il ministro Provinciale fra Alberto Marangolo

    ...Al rientro durante la tappa a Messina abbiamo passato un’altra serata con fra Giuseppe e fra Carmelo, e ho scoperto anche io le meraviglie della granita al cioccolato con panna e brioche!
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  4. Ho tradotto un racconto tratto dal libro Hasidic Tales of the Holocaust di Yaffa Eliach ad uso e consumo di chiunque ne sia interessato e poiché non ne esiste una traduzione italiana. Potete condividerla con chi volete, l'importante è che non spacciate la traduzione come opera vostra ma citiate Vincenzo Federico come traduttore e che non la utilizziate per ottenerne profitto. 
    Buona lettura! Se qualcuno fosse interessato ad altri brani del volume può contattarmi

    Il Bar Mitvah [cerimonia di passaggio per i maschi ebrei di dodici anni alla vita religiosa adulta, simile nel significato alla Cresima, n.d.t.] all’Aperion Marion di Brooklyn, New York, era stato una bella celebrazione. Il padre del ragazzo faceva parte del gruppo di Shanghai [un gruppo di sopravvissuti che avevano trovato rifugio in Cina durante la Seconda Guerra Mondiale, n.d.A.] e sua madre era una sopravvissuta di Auschwitz. Vicino a me sedeva una bionda vivace con un piacevole senso dell’umorismo che si presentò come Tula Friedman. Presto venni a sapere che Tula poteva raccontare storie in un perfetto Tedesco, Ebraico, Yiddish, Inglese, Ungherese, Ceco e senza dubbio in un paio di altre lingue di cui non avevamo parlato. Quando la musica interferiva con la nostra conversazione, lei mi chiedeva di alzare la voce dal momento che la sua capacità di udire era limitata a un solo orecchio. “Un souvenir di un pestaggio ad Auschwitz”, mi spiegò mentre si indicava l’orecchio.
    Riportava alla memoria l’evento, per filo e per segno, in Tedesco, Yiddish, Ebraico e Inglese raccontandolo nella lingua appropriata con citazioni precise, descrivendo vari episodi legati a quel pestaggio e alle sue conseguenze.
    Un cameriere arrivò al tavolo con un cesto contenente diverse varietà di pane. Tula chiuse i suoi occhi e inalò l’aroma del pane appena sfornato come chi inali i dolci profumi di un mazzo di fiori appena tagliati. Mi passò il cesto senza prendere nulla. “Grazie” disse al cameriere, “ma sono a dieta”. Si girò verso di me. “Sai, nel campo sognavo tantissimo il pane. C’era specialmente un sogno ricorrente nel quale io un giorno avrei sposato un fornaio e nella nostra casa ci sarebbe sempre stata abbondanza di pane”.
    “In cambio di questo cesto di pane”, disse un’altra donna dall’altra parte del tavolo “nel campo avresti potuto comprare tutti i gioielli che vedi a questo Bar Mitzvah. Una volta, a Bergen Belsen, ho scambiato un anello con diamanti per una fetta sottile di pane bianco”.
    Il pane sul tavolo rimaneva ancora non toccato. Il cameriere tornò nuovamente al tavolo. “Signore, vedo che oggi non avete fame”.
    “Oggi no”, disse Tula “nè mai più”.
    Il cameriere era sul punto di togliere il pane. “Lo lasci sul tavolo” disse un’altra donna. “Non c’è nulla di più rassicurante in questo mondo che avere un cesto di pane appena sfornato davanti a te sul tavolo”.

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  5. Entrando in contatto con qualcosa che emozioni, un paesaggio, un'opera d'arte, una storia, capita di guardare ammirati e chiedersi "come posso essere parte di ciò? Cosa posso fare io per rendere anche gli altri partecipi di questa sensazione?" Quando poi a dare queste emozioni è un libro non tradotto in Italiano, un libro che riesce a dare un tocco di umanità e di fiducia in Qualcosa di alto pur raccontando episodi storici terribili, ecco che la domanda diventa quasi una necessità. Devo scrivere qualcosa per trasmettere lo spirito del libro anche a chi non lo leggerà mai. 

    Hasidic tales of the Holocaust è una raccolta di episodi inerenti l'Olocausto raccolti e rielaborati a partire da interviste e conversazioni dalla storica Yaffa Eliach. Sono storie reali, ma sono anche storie chassidiche: vicende esemplari che danno una lettura religiosa piena di speranza su ciò che narrano. Per semplificare (e me ne scuso): il Chassidismo è un movimento dell'ebraismo nato in  Polonia nel XVIII secolo e sviluppatosi soprattutto nell'est europeo; esso dà grande peso alla mistica e alla santità di grandi uomini (gli zaddiq). Soprattutto, quello che qui colpisce è la fiducia nell'umanità e in Dio che traspare dalle vicende narrate. I testi raccontano di pratiche orribili: delle selezioni, delle azioni nei villaggi e nei ghetti, delle marce della morte, ma chi racconta è sopravvissuto e ha sempre un buon insegnamento dietro alla propria vicenda. In "Rudolf Haas is human!" il piccolo Zvi è scioccato dalla violenza del comandante del campo di Bergen Belsen, ma qualcosa cambia quando lo vede correre impaurito, ancora non completamente vestito, vedendo passare sopra la sua testa i bombardieri inglesi: allora i tedeschi sono umani e possono perdere la guerra! A chi mai verrebbe in mente una osservazione del genere quando si è terrorizzati dalla violenza?! Eppure è questo lo spirito che è dietro a tante testimonianze del libro: tutti siamo umani e dunque soffriamo ma possiamo anche essere capaci di grandi cose e farci toccare il cuore; vari sono gli episodi nei quali i tedeschi sono stupiti dalla fede degli chassid e per questo li risparmiano, se non addirittura chiedono ai rabbini di pregare per loro tutti. Spesso sono i sogni a farsi portavoce di un destino di salvezza (molti sono i morti, il libro non sottovaluta mai le atrocità e la morte, ma la voce che prevale è quella di chi sopravvive) in testi che ricordano le storie di miracoli che anche la tradizione cattolica conosce bene. La forza della Fede spesso spinge i prigionieri a digiunare nei giorni prescritti, rischiando le punizioni delle guardie del campo oltre che la denutrizione, ma la ricompensa sarà la salvezza dalla prigionia.
    Il libro racconta vicende ambientate in Polonia, Ucraina, Cecoslovacchia e Ungheria negli anni che vanno dal '39 (per la Polonia) per poi percorrere lo sviluppo delle vicende dopo l'attacco tedesco all'Unione Sovietica che segna un aggravarsi della situazione per i molti ebrei che abitavano in territori dove la popolazione locale era spesso ostile, fino ad arrivare ai racconti della Liberazione e a vicende avvenute anni dopo, quando i protagonisti tornarono a condurre la propria vita cercando una qualche forma di normalità.

    Oltre a queste poche e non esaurienti righe, nei prossimi giorni proverò a pubblicare la traduzione di alcuni testi.
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  6. Qui c'è un video con una buona parte della mia presentazione presso la libreria Verso di Milano. Che dire...è stata una bella esperienza perché è stata la prima volta che ho parlato dei miei racconti davanti a un pubblico!


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