Negli
ultimi tempi ho scritto un racconto su due ragazzi che amano suonare
per le strade di Genova. Non so se il testo verrà mai pubblicato da
qualcuno ma si tratta di un argomento a cui tengo molto e durante le
diverse fasi di scrittura ho pensato a vari episodi che poi sono
rimasti fuori dalla stesura definitiva. Mentre ancora non conosco le
sorti di quel testo, vorrei intanto farvi conoscere i miei due
personaggi in questo episodio, che ha comunque una loro autonomia.
Una
sera di maggio, mentre i turisti iniziavano a sperimentare qualche
maglietta a maniche corte, Giulio e Matteo trascinarono i loro
amplificatori fino al Porto Antico e si fermarono nel tratto di
passeggiata davanti a Porta Siberia. Andando verso i Magazzini del
Cotone e gli yacht, i due avevano a destra il mare addomesticato del
bacino portuale, popolato da pesci grossi e grigi, mentre a sinistra
avevano un tratto di passeggiata più largo e poi il Museo Luzzati.
Davanti al museo troneggiava una enorme statua bianca, probabilmente
ideata da Luzzati stesso: era una figura con due gambe spalancate,
una testa poco comprensibile, ma soprattutto un grosso vortice tra
testa e gambe. Matteo e Giulio erano stati furbi, perché si erano
messi a fare musica proprio in direzione di questa grande statua dove
tutti, turisti e genovesi, si fermavano a chiedersi se la spirale
così in evidenza nella figura androgina fosse un ombelico o una
fica. Mentre la gente si interrogava i due suonavano e più di una
volta avevano visto gruppi di persone che dopo aver sciolto a modo
loro l'enigma si erano semplicemente voltati verso loro per godere di
un altro tipo di arte.
Matteo
aveva sempre passato molto tempo a guardare i turisti tirando a
indovinare sulla loro nazionalità. Poteva distinguere senza problemi
i francesi dagli statunitensi prima che aprissero bocca e con un po'
di allenamento riusciva a distinguere i proprietari degli yacht e la
ciurma che ci lavorava. Per un vero e proprio pregiudizio Giulio era
convinto che gli americani dovessero necessariamente apprezzare il
rock e per questo appena vide un gruppo che Matteo aveva già
identificato come appartenenti a qualche piccola città dispersa tra
le pianure e le Montagne Rocciose, i due cominciarono una decisa
Jeremy. Il pezzo dei Pearl Jam non era certo facile da cantare e i
due, che si alternavano alla voce, lo arricchirono di diverse
stonature. Non era un pezzo leggero, Giulio e Matteo avevano discusso
molto dell'opportunità di proporlo a un pubblico che capisse
l'inglese e che conoscesse la storia che stava dietro la canzone.
Alla fine si erano autoconvinti che degli americani che avevano
scelto di fare una vacanza in Europa dovessero necessariamente avere
l'apertura mentale per poter ascoltare un pezzo che parlava di
disagio e di violenza. Giulio era fatto cosi: pensava che la loro
musica avesse anche una funzione educativa e che loro avessero un
dovere verso gli ascoltatori. Il gruppo era composto da due ragazzi
sui vent’anni e da un uomo e una donna che presumibilmente erano i
loro genitori, dovevano avere avuto i bambini quando erano ancora
giovani, perché non dimostravano più di quarantacinque anni. Alle
prime note del brano i ragazzi cominciarono a ondeggiare i piedi
mentre i genitori misero su un’espressione compiaciuta ma
imbarazzata. Saranno stati adolescenti quando il brano era uscito?
Giulio
e Matteo sapevano che la forza del brano era la parte finale: il
lungo e potente “Hu-ohoho” che ogni volta interpretavano con un
gran piacere liberatorio, cantandolo all’unisono. Dall’arpeggio
iniziale, attraverso le strofe e i ritornelli, i due sapevano che
tutto era una preparazione del
finale.
Erano
abituati a vedere il loro pubblico andare via a metà di un pezzo, ma
entrambi sapevano che non sarebbe successo con i
due genitori.
I genitori seguivano con passione, mentre i figli si erano
allontanati dopo il primo ritornello, forse avevano ascoltato
abbastanza. Ed ecco che il finale stava arrivando. Matteo aveva
cantato tutto il pezzo a denti stretti, imitando forse eccessivamente
Eddie Vedder e ora aspettava ansiosamente di arrivare a liberare i
polmoni. Immaginava sempre di avere una folla da stadio davanti a sé
che voleva sfogare rabbie e frustrazioni con l’urlo finale.
Immaginava di essere un catalizzatore di energia. I due americani
ondeggiavano i loro corpi, sapevano cosa stava succedendo e i loro
pugni chiusi, stesi vicino alle anche, dimostravano che avrebbero
voluto lasciare uscire ciò che avevano dentro, che si stavano
trattenendo a fatica dal farlo.
Finito
il pezzo i due ritornarono ad assumere una postura più naturale e si
allontanarono, nessuno dei due cercò di incrociare lo sguardo di
Giulio né tanto meno quello di Matteo. Raggiunsero i figli che
stavamo facendo dei selfie vicino alla statua e dopo qualche parola
tra di loro la ragazza si avvicinò alla custodia della chitarra,
lasciata aperta per le offerte, e vi fece scivolare una moneta da due
euro.
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