1. Uno scorcio del dedalo di vicoli che parte da Via ai Quattro
    Canti di San Francesco
    Genova è piena di posti dove caratteristiche contraddittorie convivono con pochi imbarazzi. La via di cui voglio scrivervi oggi è una sorta di portale tra due mondi molto diversi tra loro. Si tratta di una strada che scende perpendicolare da Via Garibaldi a via della Maddalena, unendo due delle vie più caratteristiche della città, anche se per motivi opposti.



    Un giardino sopraelevato
    La fontana di una corte interna a un palazzo

















    Via Garibaldi è la "strada nuova" della Genova che nel corso del XVI secolo stava cercando una nuova collocazione in uno scenario europeo in continuo cambiamento, tra alleanze camaleontiche con Francia e/o Spagna e un Mar Mediterraneo sempre più periferico. Le famiglie nobili genovesi -i Grimaldi non emigrati oltralpe in primis -scelgono di compiere un forte cambiamento a livello abitativo. Urbanisticamente il Medioevo era stato l'epoca delle alte torri familiari che cercavano di farsi strada verso il cielo tra le case dei vicoli, ma nel corso della prima metà del XVI secolo il principe Andrea Doria (principe non della fiera e repubblicana Genova, ma di Melfi) decide di farsi costruire una villa con un giardino in una zona periferica e nell'arco di una ventina di anni anche le principali famiglie genovesi decidono di seguire l'esempio del personaggio più influente dell'epoca. Nasce così il progetto di Strada Nuova, una via nella quale si concentrano palazzi rinascimentali con giardini, disposti tra il monte Albano e la parte estrema dei vicoli. Si trattava di una zona dedita alla prostituzione e malfamata. Qui i nobili decidono di ricavare dal poco spazio disponibile delle corti interne e dei giardini rialzati. Il risultato saranno i palazzi più belli della città, palazzi che attireranno l'interesse di Rubens che proporrà questo modello architettonico anche nel nord Europa. Non mi dilungo oltre, ma i palazzi dei Rolli -questo il nome con cui sono conosciuti -hanno una storia gloriosa che vi invito a cercare.



    Non si vede molto ma lì in fondo, dove
    il vicolo incrocia Via della Maddalena,
    ci sono delle prostitute
    Via della Maddalena, e tutto l'intrico di vicoletti che la circondano sopra e sotto, è uno dei volti della Genova dalle tante lingue e dalle tante attività, lecite e illecite. Sulla via si trovano locali gestiti da giovani, librerie, spazi per la comunità; insieme ci sono anche bar per chi consuma l'alcol direttamente sulla porta d'ingresso o pochi passi oltre. Sulla soglia di alcune abitazioni, specie nei vicoli perpendicolari alla via, ci sono prostitute che, a ogni ora fingono indifferenza per non essere troppo esplicite con i potenziali clienti e che invece parlano tranquillamente con quelli abituali, prima di andare ad appartarsi in casa.
    Ecco, via ai Quattro Canti è proprio la via che permette di andare dal mondo di luce sovrastante a quello oscuro dei palazzi alti che fanno ombra. Non è un passaggio solamente dalla luce al buio, dall'alto al basso, ma è anche un passaggio attraverso suoni diversi. Percorrete la via e fate attenzione a quello che sentite; se ci passate in estate troverete i tavolini di due locali e il relativo rumore, ma se i locali sono chiusi ascoltate. Noterete che si tratta di una via tranquilla, come spesso sono i luoghi di passaggio, probabilmente gli alti palazzi fanno da barriera anche ai suoni, probabilmente gli incroci inibiscono le persone a portare i loro rumori oltre. Provate a fare caso a come cambiano i suoni allora mentre vi avvicinate a via Garibaldi, dove la gente chiacchiera e le guide spiegano le caratteristiche della zona o mentre vi inoltrate verso la Maddalena, dove silenzio e rumori di botteghe sono spesso interrotti da un vociare in tante lingue.
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  2. Negli ultimi tempi ho scritto un racconto su due ragazzi che amano suonare per le strade di Genova. Non so se il testo verrà mai pubblicato da qualcuno ma si tratta di un argomento a cui tengo molto e durante le diverse fasi di scrittura ho pensato a vari episodi che poi sono rimasti fuori dalla stesura definitiva. Mentre ancora non conosco le sorti di quel testo, vorrei intanto farvi conoscere i miei due personaggi in questo episodio, che ha comunque una loro autonomia.

    Una sera di maggio, mentre i turisti iniziavano a sperimentare qualche maglietta a maniche corte, Giulio e Matteo trascinarono i loro amplificatori fino al Porto Antico e si fermarono nel tratto di passeggiata davanti a Porta Siberia. Andando verso i Magazzini del Cotone e gli yacht, i due avevano a destra il mare addomesticato del bacino portuale, popolato da pesci grossi e grigi, mentre a sinistra avevano un tratto di passeggiata più largo e poi il Museo Luzzati. Davanti al museo troneggiava una enorme statua bianca, probabilmente ideata da Luzzati stesso: era una figura con due gambe spalancate, una testa poco comprensibile, ma soprattutto un grosso vortice tra testa e gambe. Matteo e Giulio erano stati furbi, perché si erano messi a fare musica proprio in direzione di questa grande statua dove tutti, turisti e genovesi, si fermavano a chiedersi se la spirale così in evidenza nella figura androgina fosse un ombelico o una fica. Mentre la gente si interrogava i due suonavano e più di una volta avevano visto gruppi di persone che dopo aver sciolto a modo loro l'enigma si erano semplicemente voltati verso loro per godere di un altro tipo di arte.
    Matteo aveva sempre passato molto tempo a guardare i turisti tirando a indovinare sulla loro nazionalità. Poteva distinguere senza problemi i francesi dagli statunitensi prima che aprissero bocca e con un po' di allenamento riusciva a distinguere i proprietari degli yacht e la ciurma che ci lavorava. Per un vero e proprio pregiudizio Giulio era convinto che gli americani dovessero necessariamente apprezzare il rock e per questo appena vide un gruppo che Matteo aveva già identificato come appartenenti a qualche piccola città dispersa tra le pianure e le Montagne Rocciose, i due cominciarono una decisa Jeremy. Il pezzo dei Pearl Jam non era certo facile da cantare e i due, che si alternavano alla voce, lo arricchirono di diverse stonature. Non era un pezzo leggero, Giulio e Matteo avevano discusso molto dell'opportunità di proporlo a un pubblico che capisse l'inglese e che conoscesse la storia che stava dietro la canzone. Alla fine si erano autoconvinti che degli americani che avevano scelto di fare una vacanza in Europa dovessero necessariamente avere l'apertura mentale per poter ascoltare un pezzo che parlava di disagio e di violenza. Giulio era fatto cosi: pensava che la loro musica avesse anche una funzione educativa e che loro avessero un dovere verso gli ascoltatori. Il gruppo era composto da due ragazzi sui vent’anni e da un uomo e una donna che presumibilmente erano i loro genitori, dovevano avere avuto i bambini quando erano ancora giovani, perché non dimostravano più di quarantacinque anni. Alle prime note del brano i ragazzi cominciarono a ondeggiare i piedi mentre i genitori misero su un’espressione compiaciuta ma imbarazzata. Saranno stati adolescenti quando il brano era uscito?
    Giulio e Matteo sapevano che la forza del brano era la parte finale: il lungo e potente “Hu-ohoho” che ogni volta interpretavano con un gran piacere liberatorio, cantandolo all’unisono. Dall’arpeggio iniziale, attraverso le strofe e i ritornelli, i due sapevano che tutto era una preparazione del finale.
    Erano abituati a vedere il loro pubblico andare via a metà di un pezzo, ma entrambi sapevano che non sarebbe successo con i due genitori. I genitori seguivano con passione, mentre i figli si erano allontanati dopo il primo ritornello, forse avevano ascoltato abbastanza. Ed ecco che il finale stava arrivando. Matteo aveva cantato tutto il pezzo a denti stretti, imitando forse eccessivamente Eddie Vedder e ora aspettava ansiosamente di arrivare a liberare i polmoni. Immaginava sempre di avere una folla da stadio davanti a sé che voleva sfogare rabbie e frustrazioni con l’urlo finale. Immaginava di essere un catalizzatore di energia. I due americani ondeggiavano i loro corpi, sapevano cosa stava succedendo e i loro pugni chiusi, stesi vicino alle anche, dimostravano che avrebbero voluto lasciare uscire ciò che avevano dentro, che si stavano trattenendo a fatica dal farlo.
    Finito il pezzo i due ritornarono ad assumere una postura più naturale e si allontanarono, nessuno dei due cercò di incrociare lo sguardo di Giulio né tanto meno quello di Matteo. Raggiunsero i figli che stavamo facendo dei selfie vicino alla statua e dopo qualche parola tra di loro la ragazza si avvicinò alla custodia della chitarra, lasciata aperta per le offerte, e vi fece scivolare una moneta da due euro.



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  3. Ho appena finito di guardare Guava Island sul servizio di streaming di Amazon. I due protagonisti del film sono Childish Gambino (Donald Glover alle anagrafe) e Rihanna ma pur non essendo un gran fan di nessuno dei due mi sembra che siano due personalità interessanti e interessate a dare una loro visione dell'essere afroamericano negli Stati Uniti e da qualcosa che avevo letto su internet mi pareva che il film trattasse in qualche modo di questo tema. In realtà non è esattamente così, ma non sono per nulla rimasto deluso dalla visione!
    La storia è ambientata nell'immaginaria isola caraibica (si presuppone che si trovi lì) di Guava, nella quale la più grande ricchezza è un baco che produce una seta blu. La produzione del tessuto dai fili del prezioso animaletto è però controllata da Red, il potente dell'isola. Non è specificato nel film se Red sia solo il proprietario di ogni attività economica dell'isola (la società di spedizione nella quale lavora Deni, il personaggio interpretato da Glover e l'azienda di tessuti nella quale lavora Kofi-Rihanna che è la compagna di Deni) o se abbia anche un ruolo politico, ma questo non importa; fatto sta che si comporta come un dittatore. La vita dei cittadini di Guava è appesantita dalla necessità di lavorare sette giorni su sette per Red, senza avere diritto al giorno di riposo. A questo ritmo di lavoro disumano si ribella Deni,  che oltre a lavorare nell'azienda di Red partecipa anche come musicista a due programmi radiofonici nella stazione locale . L'uomo organizza un festival con l'obiettivo di fare godere alla popolazione una notte di festa invitando tutti  a non andare a lavorare il giorno successivo. Secondo lui l'isola è un paradiso ma i ritmi di lavoro imposti dal potente non permettono di goderne, la notte di musica e il giorno di riposo sarebbero dunque una scelta di vita contro la logica del profitto. Non vado oltre nella trama, ovviamente per non rovinare la visione. 
    Nel film, che dura poco meno di un'ora, convivono vari linguaggi cinematografici: dall'animazione grafica iniziale alla coreografia da musical/video musicale (c'è una reinterpretazione del video di This is America, perfettamente inserita in una scena nella quale Glover spiega a un collega di lavoro la sua visione della libertà e del modello di vita libero degli U.S.A.). Rihanna poi è assolutamente all'altezza del suo ruolo. Lei, come P!nk e Katy Perry, sono superstar del pop che hanno costruito la loro carriera anche sulla loro fisicità e bellezza; apro una parentesi su di loro perché mi pare che condividano lo stesso destino di chi necessariamente deve cambiare qualcosa perché non è più sulla cresta dell'onda. Rihanna è sempre stata quella tormentata, sfrontata ma fragile e mi piace pensare che questo film sia  stato per lei un'occasione per vivere un ruolo diverso di se stessa. C'è una scena meravigliosa al riguardo, quella nella quale Deni ha finalmente finito di comporre una canzone per Kofi e gliela canta (e balla, altro video musicale nel film); il pezzo è Summertime Magic ed è perfettamente azzeccata la scelta di mettere Rihanna all'interno di una scena di musica senza farla cantare né ballare, che è quello che invece il pubblico si sarebbe aspettato da lei. 
    Subito dopo aver terminato la visione ho cercato qualche articolo sul film, giusto per vedere che pareri avesse suscitato, e ho letto un articolo della versione italiana di Rolling Stone  che mi ha dato un'ulteriore prova di quanto la rivista sia lontana dal mondo della musica e dall'immaginario che vorrebbe appoggiare... Non ho mai amato Rolling Stone e questo articolo ha tutti i difetti che ho sempre imputato alla rivista (per i tre o quattro numeri che ne ho letto, magari hanno pubblicato anche di meglio!): interesse verso qualcosa solo perché sembra essere alla moda, incapacità di apprezzare ciò che si allontana dalla aspettative e una scrittura forzatamente alla mano...
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  4. Mi piacerebbe molto scrivere un racconto su Jason Everman, una persona di cui ho appena scoperto l'esistenza. Eppure l'ho avuto spesso davanti agli occhi, senza notarlo mai. Eccolo: è l'altro che suona la chitarra sulla copertina di Bleach, quello a destra. Non avevo mai fatto caso al fatto che in questa immagine i Nirvana compaiono in formazione da quattro invece che i classici tre (che, per chi non lo sapesse, non includono ancora Dave Grohl). Personaggio interessante Jason: è citato nei crediti del disco come secondo chitarrista pur non avendo suonato una sola nota sul disco. Ha partecipato a diversi concerti del gruppo e poi basta. O quasi basta: perché è nominato come ringraziamento per aver pagato una parte dei costi delle registrazioni dell'album. Che storia pazzesca, però rende bene il clima della Seattle musicale di fine anni '80, dove l'appartenenza a un gruppo non era un'etichetta che rimaneva sempre lì e dove in molti suonavano su diversi progetti. Dopo l'esperienza con i Nirvana (mi viene da ridere a parlare di esperienza...), o meglio dopo essere comparso sulla copertina del loro disco, Jason suona in un altro paio di gruppi tra cui i Soundgarden (!!! lì suona davvero, ma il basso!) e poi si arruola nell'esercito.
    Sarebbe bello scrivere un racconto su di lui, ma forse ancora di più intervistarlo.

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  5. Nel mio blog di Medium ultimamente ho pubblicato due recensioni diverse dalle solite.

    Qui ho scritto una doppia recensione, paragonando due dischi che amo molto; l'Unplugged di Eric Clapton e quello dei Nirvana.











    Qui invece una recensione che mi è venuta spontaneamente: mentre leggevo Robinson Crusoe stavo ascoltando Master of Puppets e, scoperta inquietante, ho trovato molte somiglianze tra le due opere!

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  6. Da qualche anno scrivo sempre meno sul blog. Il fatto di leggere pochi commenti non mi spinge tanto a scrivere pezzi nuovi. Anzi, in realtà praticamente nessuno commenta, anche se qualcuno legge. In un articolo che ho scritto su un'altra piattaforma (lo trovate qui), ho provato ad analizzare il fenomeno di questo cambio di approccio verso il blog e qui non mi ripeterò. Tuttavia però un paio di aggiunte le sento necessarie.
    Il rapporto verso il pc è cambiato. Non so se sia un cambiamento che riguarda solo me, però prima dell'avvento dello smartphone usavo molto il pc. Di solito avevo una pagina di Word aperta e una di Chrome (o forse era ancora Internet Explorer...): più cercavo di scrivere e più mi mettevo a perdere tempo su internet, ma anche se concludevo poco le due erano sempre aperte in simultanea. Da quando posso cercare su internet direttamente dallo smartphone, da quando ho il televisore che mi permette di vedere qualunque cosa si trovi su internet, il pc mi serve meno, non mi viene naturale fissare su un documento di testo le mie idee e anche scriverle direttamente sullo smartphone è meno naturale. Ho cominciato a utilizzare maggiormente i taccuini su cui scrivere a penna, ma quelle sono comunque brutte copie, che poi non sempre mi metto a trascrivere. 
    L'uso di taccuini mi porta all'altra aggiunta: scrivo più narrativa che riflessioni. La stragrande maggioranza di quello che fisso su carta sono racconti o abbozzi di racconti, alcuni dei quali vengono poi rielaborati in bella copia al pc. Lo scopo non è semplicemente condividerli su internet (senza sapere chi mai li legga veramente e se veramente siano piaciuti), ma di proporli a qualche rivista online, dunque devono rimanere inediti fino alla loro uscita, oppure fino a quando mi stanco di ricevere rifiuti! Un'eccezione è un racconto di Natale che ho scritto e pubblicato subito, perchè mi pareva un bel regalo per chiunque volesse riceverlo. Si intitola Jasmine ed assomiglia a tanti altri miei testi che al momento sono inediti, mi piace definirlo ritratto, un breve testo che inquadra un personaggio. L'ispirazione per testi di questo genere viene soprattutto camminando per strada e guardandosi intorno, perché anche se pubblico meno non ho certo smesso di guardarmi intorno e di interrogarmi su ciò che vedo. 

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