1. Uno scorcio del dedalo di vicoli che parte da Via ai Quattro
    Canti di San Francesco
    Genova è piena di posti dove caratteristiche contraddittorie convivono con pochi imbarazzi. La via di cui voglio scrivervi oggi è una sorta di portale tra due mondi molto diversi tra loro. Si tratta di una strada che scende perpendicolare da Via Garibaldi a via della Maddalena, unendo due delle vie più caratteristiche della città, anche se per motivi opposti.



    Un giardino sopraelevato
    La fontana di una corte interna a un palazzo

















    Via Garibaldi è la "strada nuova" della Genova che nel corso del XVI secolo stava cercando una nuova collocazione in uno scenario europeo in continuo cambiamento, tra alleanze camaleontiche con Francia e/o Spagna e un Mar Mediterraneo sempre più periferico. Le famiglie nobili genovesi -i Grimaldi non emigrati oltralpe in primis -scelgono di compiere un forte cambiamento a livello abitativo. Urbanisticamente il Medioevo era stato l'epoca delle alte torri familiari che cercavano di farsi strada verso il cielo tra le case dei vicoli, ma nel corso della prima metà del XVI secolo il principe Andrea Doria (principe non della fiera e repubblicana Genova, ma di Melfi) decide di farsi costruire una villa con un giardino in una zona periferica e nell'arco di una ventina di anni anche le principali famiglie genovesi decidono di seguire l'esempio del personaggio più influente dell'epoca. Nasce così il progetto di Strada Nuova, una via nella quale si concentrano palazzi rinascimentali con giardini, disposti tra il monte Albano e la parte estrema dei vicoli. Si trattava di una zona dedita alla prostituzione e malfamata. Qui i nobili decidono di ricavare dal poco spazio disponibile delle corti interne e dei giardini rialzati. Il risultato saranno i palazzi più belli della città, palazzi che attireranno l'interesse di Rubens che proporrà questo modello architettonico anche nel nord Europa. Non mi dilungo oltre, ma i palazzi dei Rolli -questo il nome con cui sono conosciuti -hanno una storia gloriosa che vi invito a cercare.



    Non si vede molto ma lì in fondo, dove
    il vicolo incrocia Via della Maddalena,
    ci sono delle prostitute
    Via della Maddalena, e tutto l'intrico di vicoletti che la circondano sopra e sotto, è uno dei volti della Genova dalle tante lingue e dalle tante attività, lecite e illecite. Sulla via si trovano locali gestiti da giovani, librerie, spazi per la comunità; insieme ci sono anche bar per chi consuma l'alcol direttamente sulla porta d'ingresso o pochi passi oltre. Sulla soglia di alcune abitazioni, specie nei vicoli perpendicolari alla via, ci sono prostitute che, a ogni ora fingono indifferenza per non essere troppo esplicite con i potenziali clienti e che invece parlano tranquillamente con quelli abituali, prima di andare ad appartarsi in casa.
    Ecco, via ai Quattro Canti è proprio la via che permette di andare dal mondo di luce sovrastante a quello oscuro dei palazzi alti che fanno ombra. Non è un passaggio solamente dalla luce al buio, dall'alto al basso, ma è anche un passaggio attraverso suoni diversi. Percorrete la via e fate attenzione a quello che sentite; se ci passate in estate troverete i tavolini di due locali e il relativo rumore, ma se i locali sono chiusi ascoltate. Noterete che si tratta di una via tranquilla, come spesso sono i luoghi di passaggio, probabilmente gli alti palazzi fanno da barriera anche ai suoni, probabilmente gli incroci inibiscono le persone a portare i loro rumori oltre. Provate a fare caso a come cambiano i suoni allora mentre vi avvicinate a via Garibaldi, dove la gente chiacchiera e le guide spiegano le caratteristiche della zona o mentre vi inoltrate verso la Maddalena, dove silenzio e rumori di botteghe sono spesso interrotti da un vociare in tante lingue.
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  2. Negli ultimi tempi ho scritto un racconto su due ragazzi che amano suonare per le strade di Genova. Non so se il testo verrà mai pubblicato da qualcuno ma si tratta di un argomento a cui tengo molto e durante le diverse fasi di scrittura ho pensato a vari episodi che poi sono rimasti fuori dalla stesura definitiva. Mentre ancora non conosco le sorti di quel testo, vorrei intanto farvi conoscere i miei due personaggi in questo episodio, che ha comunque una loro autonomia.

    Una sera di maggio, mentre i turisti iniziavano a sperimentare qualche maglietta a maniche corte, Giulio e Matteo trascinarono i loro amplificatori fino al Porto Antico e si fermarono nel tratto di passeggiata davanti a Porta Siberia. Andando verso i Magazzini del Cotone e gli yacht, i due avevano a destra il mare addomesticato del bacino portuale, popolato da pesci grossi e grigi, mentre a sinistra avevano un tratto di passeggiata più largo e poi il Museo Luzzati. Davanti al museo troneggiava una enorme statua bianca, probabilmente ideata da Luzzati stesso: era una figura con due gambe spalancate, una testa poco comprensibile, ma soprattutto un grosso vortice tra testa e gambe. Matteo e Giulio erano stati furbi, perché si erano messi a fare musica proprio in direzione di questa grande statua dove tutti, turisti e genovesi, si fermavano a chiedersi se la spirale così in evidenza nella figura androgina fosse un ombelico o una fica. Mentre la gente si interrogava i due suonavano e più di una volta avevano visto gruppi di persone che dopo aver sciolto a modo loro l'enigma si erano semplicemente voltati verso loro per godere di un altro tipo di arte.
    Matteo aveva sempre passato molto tempo a guardare i turisti tirando a indovinare sulla loro nazionalità. Poteva distinguere senza problemi i francesi dagli statunitensi prima che aprissero bocca e con un po' di allenamento riusciva a distinguere i proprietari degli yacht e la ciurma che ci lavorava. Per un vero e proprio pregiudizio Giulio era convinto che gli americani dovessero necessariamente apprezzare il rock e per questo appena vide un gruppo che Matteo aveva già identificato come appartenenti a qualche piccola città dispersa tra le pianure e le Montagne Rocciose, i due cominciarono una decisa Jeremy. Il pezzo dei Pearl Jam non era certo facile da cantare e i due, che si alternavano alla voce, lo arricchirono di diverse stonature. Non era un pezzo leggero, Giulio e Matteo avevano discusso molto dell'opportunità di proporlo a un pubblico che capisse l'inglese e che conoscesse la storia che stava dietro la canzone. Alla fine si erano autoconvinti che degli americani che avevano scelto di fare una vacanza in Europa dovessero necessariamente avere l'apertura mentale per poter ascoltare un pezzo che parlava di disagio e di violenza. Giulio era fatto cosi: pensava che la loro musica avesse anche una funzione educativa e che loro avessero un dovere verso gli ascoltatori. Il gruppo era composto da due ragazzi sui vent’anni e da un uomo e una donna che presumibilmente erano i loro genitori, dovevano avere avuto i bambini quando erano ancora giovani, perché non dimostravano più di quarantacinque anni. Alle prime note del brano i ragazzi cominciarono a ondeggiare i piedi mentre i genitori misero su un’espressione compiaciuta ma imbarazzata. Saranno stati adolescenti quando il brano era uscito?
    Giulio e Matteo sapevano che la forza del brano era la parte finale: il lungo e potente “Hu-ohoho” che ogni volta interpretavano con un gran piacere liberatorio, cantandolo all’unisono. Dall’arpeggio iniziale, attraverso le strofe e i ritornelli, i due sapevano che tutto era una preparazione del finale.
    Erano abituati a vedere il loro pubblico andare via a metà di un pezzo, ma entrambi sapevano che non sarebbe successo con i due genitori. I genitori seguivano con passione, mentre i figli si erano allontanati dopo il primo ritornello, forse avevano ascoltato abbastanza. Ed ecco che il finale stava arrivando. Matteo aveva cantato tutto il pezzo a denti stretti, imitando forse eccessivamente Eddie Vedder e ora aspettava ansiosamente di arrivare a liberare i polmoni. Immaginava sempre di avere una folla da stadio davanti a sé che voleva sfogare rabbie e frustrazioni con l’urlo finale. Immaginava di essere un catalizzatore di energia. I due americani ondeggiavano i loro corpi, sapevano cosa stava succedendo e i loro pugni chiusi, stesi vicino alle anche, dimostravano che avrebbero voluto lasciare uscire ciò che avevano dentro, che si stavano trattenendo a fatica dal farlo.
    Finito il pezzo i due ritornarono ad assumere una postura più naturale e si allontanarono, nessuno dei due cercò di incrociare lo sguardo di Giulio né tanto meno quello di Matteo. Raggiunsero i figli che stavamo facendo dei selfie vicino alla statua e dopo qualche parola tra di loro la ragazza si avvicinò alla custodia della chitarra, lasciata aperta per le offerte, e vi fece scivolare una moneta da due euro.



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  3. Ho appena finito di guardare Guava Island sul servizio di streaming di Amazon. I due protagonisti del film sono Childish Gambino (Donald Glover alle anagrafe) e Rihanna ma pur non essendo un gran fan di nessuno dei due mi sembra che siano due personalità interessanti e interessate a dare una loro visione dell'essere afroamericano negli Stati Uniti e da qualcosa che avevo letto su internet mi pareva che il film trattasse in qualche modo di questo tema. In realtà non è esattamente così, ma non sono per nulla rimasto deluso dalla visione!
    La storia è ambientata nell'immaginaria isola caraibica (si presuppone che si trovi lì) di Guava, nella quale la più grande ricchezza è un baco che produce una seta blu. La produzione del tessuto dai fili del prezioso animaletto è però controllata da Red, il potente dell'isola. Non è specificato nel film se Red sia solo il proprietario di ogni attività economica dell'isola (la società di spedizione nella quale lavora Deni, il personaggio interpretato da Glover e l'azienda di tessuti nella quale lavora Kofi-Rihanna che è la compagna di Deni) o se abbia anche un ruolo politico, ma questo non importa; fatto sta che si comporta come un dittatore. La vita dei cittadini di Guava è appesantita dalla necessità di lavorare sette giorni su sette per Red, senza avere diritto al giorno di riposo. A questo ritmo di lavoro disumano si ribella Deni,  che oltre a lavorare nell'azienda di Red partecipa anche come musicista a due programmi radiofonici nella stazione locale . L'uomo organizza un festival con l'obiettivo di fare godere alla popolazione una notte di festa invitando tutti  a non andare a lavorare il giorno successivo. Secondo lui l'isola è un paradiso ma i ritmi di lavoro imposti dal potente non permettono di goderne, la notte di musica e il giorno di riposo sarebbero dunque una scelta di vita contro la logica del profitto. Non vado oltre nella trama, ovviamente per non rovinare la visione. 
    Nel film, che dura poco meno di un'ora, convivono vari linguaggi cinematografici: dall'animazione grafica iniziale alla coreografia da musical/video musicale (c'è una reinterpretazione del video di This is America, perfettamente inserita in una scena nella quale Glover spiega a un collega di lavoro la sua visione della libertà e del modello di vita libero degli U.S.A.). Rihanna poi è assolutamente all'altezza del suo ruolo. Lei, come P!nk e Katy Perry, sono superstar del pop che hanno costruito la loro carriera anche sulla loro fisicità e bellezza; apro una parentesi su di loro perché mi pare che condividano lo stesso destino di chi necessariamente deve cambiare qualcosa perché non è più sulla cresta dell'onda. Rihanna è sempre stata quella tormentata, sfrontata ma fragile e mi piace pensare che questo film sia  stato per lei un'occasione per vivere un ruolo diverso di se stessa. C'è una scena meravigliosa al riguardo, quella nella quale Deni ha finalmente finito di comporre una canzone per Kofi e gliela canta (e balla, altro video musicale nel film); il pezzo è Summertime Magic ed è perfettamente azzeccata la scelta di mettere Rihanna all'interno di una scena di musica senza farla cantare né ballare, che è quello che invece il pubblico si sarebbe aspettato da lei. 
    Subito dopo aver terminato la visione ho cercato qualche articolo sul film, giusto per vedere che pareri avesse suscitato, e ho letto un articolo della versione italiana di Rolling Stone  che mi ha dato un'ulteriore prova di quanto la rivista sia lontana dal mondo della musica e dall'immaginario che vorrebbe appoggiare... Non ho mai amato Rolling Stone e questo articolo ha tutti i difetti che ho sempre imputato alla rivista (per i tre o quattro numeri che ne ho letto, magari hanno pubblicato anche di meglio!): interesse verso qualcosa solo perché sembra essere alla moda, incapacità di apprezzare ciò che si allontana dalla aspettative e una scrittura forzatamente alla mano...
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  4. Mi piacerebbe molto scrivere un racconto su Jason Everman, una persona di cui ho appena scoperto l'esistenza. Eppure l'ho avuto spesso davanti agli occhi, senza notarlo mai. Eccolo: è l'altro che suona la chitarra sulla copertina di Bleach, quello a destra. Non avevo mai fatto caso al fatto che in questa immagine i Nirvana compaiono in formazione da quattro invece che i classici tre (che, per chi non lo sapesse, non includono ancora Dave Grohl). Personaggio interessante Jason: è citato nei crediti del disco come secondo chitarrista pur non avendo suonato una sola nota sul disco. Ha partecipato a diversi concerti del gruppo e poi basta. O quasi basta: perché è nominato come ringraziamento per aver pagato una parte dei costi delle registrazioni dell'album. Che storia pazzesca, però rende bene il clima della Seattle musicale di fine anni '80, dove l'appartenenza a un gruppo non era un'etichetta che rimaneva sempre lì e dove in molti suonavano su diversi progetti. Dopo l'esperienza con i Nirvana (mi viene da ridere a parlare di esperienza...), o meglio dopo essere comparso sulla copertina del loro disco, Jason suona in un altro paio di gruppi tra cui i Soundgarden (!!! lì suona davvero, ma il basso!) e poi si arruola nell'esercito.
    Sarebbe bello scrivere un racconto su di lui, ma forse ancora di più intervistarlo.

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  5. Nel mio blog di Medium ultimamente ho pubblicato due recensioni diverse dalle solite.

    Qui ho scritto una doppia recensione, paragonando due dischi che amo molto; l'Unplugged di Eric Clapton e quello dei Nirvana.











    Qui invece una recensione che mi è venuta spontaneamente: mentre leggevo Robinson Crusoe stavo ascoltando Master of Puppets e, scoperta inquietante, ho trovato molte somiglianze tra le due opere!

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  6. Da qualche anno scrivo sempre meno sul blog. Il fatto di leggere pochi commenti non mi spinge tanto a scrivere pezzi nuovi. Anzi, in realtà praticamente nessuno commenta, anche se qualcuno legge. In un articolo che ho scritto su un'altra piattaforma (lo trovate qui), ho provato ad analizzare il fenomeno di questo cambio di approccio verso il blog e qui non mi ripeterò. Tuttavia però un paio di aggiunte le sento necessarie.
    Il rapporto verso il pc è cambiato. Non so se sia un cambiamento che riguarda solo me, però prima dell'avvento dello smartphone usavo molto il pc. Di solito avevo una pagina di Word aperta e una di Chrome (o forse era ancora Internet Explorer...): più cercavo di scrivere e più mi mettevo a perdere tempo su internet, ma anche se concludevo poco le due erano sempre aperte in simultanea. Da quando posso cercare su internet direttamente dallo smartphone, da quando ho il televisore che mi permette di vedere qualunque cosa si trovi su internet, il pc mi serve meno, non mi viene naturale fissare su un documento di testo le mie idee e anche scriverle direttamente sullo smartphone è meno naturale. Ho cominciato a utilizzare maggiormente i taccuini su cui scrivere a penna, ma quelle sono comunque brutte copie, che poi non sempre mi metto a trascrivere. 
    L'uso di taccuini mi porta all'altra aggiunta: scrivo più narrativa che riflessioni. La stragrande maggioranza di quello che fisso su carta sono racconti o abbozzi di racconti, alcuni dei quali vengono poi rielaborati in bella copia al pc. Lo scopo non è semplicemente condividerli su internet (senza sapere chi mai li legga veramente e se veramente siano piaciuti), ma di proporli a qualche rivista online, dunque devono rimanere inediti fino alla loro uscita, oppure fino a quando mi stanco di ricevere rifiuti! Un'eccezione è un racconto di Natale che ho scritto e pubblicato subito, perchè mi pareva un bel regalo per chiunque volesse riceverlo. Si intitola Jasmine ed assomiglia a tanti altri miei testi che al momento sono inediti, mi piace definirlo ritratto, un breve testo che inquadra un personaggio. L'ispirazione per testi di questo genere viene soprattutto camminando per strada e guardandosi intorno, perché anche se pubblico meno non ho certo smesso di guardarmi intorno e di interrogarmi su ciò che vedo. 

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  7. Martedì verso le 12 ero a mettere l'acqua alle piante in casa di mia mamma. Mentre riempivo le bottiglie ho dato uno sguardo su Facebook, un mio contatto aveva scritto che era caduto un ponte dietro Sampierdarena, consigliava di non prendere l'autostrada; nessun tono allarmistico: sono passato oltre, quando piove capita spesso che alcune strutture diventino inagibili.
    Qualche minuto dopo un mio amico scrive su Whatsapp che è crollato il ponte Morandi, ma il nome mi dice poco. Alla mia richiesta di chiarimenti arriva una foto; una foto da non crederci. Era il ponte dell'autostrada, o meglio un vuoto dove c'era parte di quel ponte. Ci metto un po'  a capire; quando succedono cose così grandi la prima impressione è che sia strano che attorno a me non ci siano altri segni di questa tragedia. Le piante sono ancora sul balcone, i rumori sulle strade di Voltri sono ancora gli stessi, nulla sembra essere cambiato a parte quella foto. Credo che sia perché una cosa così grande non ci si aspetta che possa succedere. Una macchina può cadere da un ponte, può anche succedere una rapina al supermercato davanti casa, ma un ponte intero non può cadere, sarebbe come se dicessero che è crollato il Colosseo: come fa il mondo attorno a continuare a ruotare dopo una cosa del genere? Eppure è successo. Minuto dopo minuto diventa più chiaro.
    Chi non conosce Genova chiede ai genovesi se ci siano mai passati sopra mentre chi abita qui ha scritto sui social network che sul ponte in quel momento tutti eravamo lì, ed è vero. La città è in lutto per essa stessa, ci vorrà del tempo per capire cosa fare adesso senza quel ponte, come muoversi, come continuare normalmente le nostre vite.
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  8. Il versante est della Limmat, dalla collina di Lindenhof



    Zurigo è una delle città più care del mondo. Non lo dico io, se cercate su internet troverete che la sua Bahnhofstrasse è una delle tre vie con i negozi dai prezzi più alti, insieme alla Fifth Avenue di New York... e un'altra via che non ricordo. Nonostante l'imprecisione ho pensato che iniziare in questo modo un breve articolo su un viaggio low cost fosse molto d'effetto.
    Appena tornato da un viaggio nella città mi sembrava interessante  darvi un paio di suggerimenti nel caso vogliate viaggiare a basso costo, specie se siete nella bella stagione. Alcune osservazioni che faccio credo che valgano per ogni viaggio fai da te in qualunque città europea.
    1°: non trascurare il tuo pancino!
    In un video che avevo visto per prepararmi al viaggio, la vlogger (che parola orribile...però credo che sia corretta e dunque la uso!) diceva che la Svizzera non è un posto famoso per la sua cucina, per cui non vale la pena di spendere una fortuna per il cibo e mi sento d'accordo... Stop: cioccolata e formaggi sono un discorso a parte, abbiate pazienza e ne parlerò! I ristoranti sono molto cari, ma soprattutto è molto caro quello che noi italiani compreremmo per colazione: cioè caffè e cappuccino, che vanno tranquillamente dai 3,5 franchi nelle macchinette ai 4 o 5 nei bar. Molto più conveniente comprare qualcosa al supermercato e consumarla prima che inizi la giornata. In realtà lo stesso vale anche per gli altri pasti(un kebab lo paghereste circa 8-9 franchi e un panino circa 10). Il mio consiglio dunque, se pensate di mangiare camminando o sfruttando gli spazi pubblici,  è di comprare qualcosa nei supermarket. Dietro il Fraumunster, verso il ponte vicino al lago (su Kappelergasse) si trova una Lidl che ha un buon reparto di prodotti da forno (dai croissant salati alle pizzette...se non vi scandalizza mangiarle all'estero!), mentre nelle varie Coop sparse per la città trovate ottimi prodotti a prezzi abbordabili (ho provato ad andare alla Migros ma la Coop mi pareva migliore. Ottima come rapporto marche/prezzi anche la Denner, che credo sia un discount, ma ha anche prodotti di marca, a differenza della Lidl.): i salumi sono cari ma non pazzeschi, così come la carne, ma il pane e alcuni latticini sono molto abbordabili. Con i formaggi i prezzi sono come in Italia: c'è il formaggio economico e quello più costoso, mentre latte e yogurt sono economici. La cioccolata di solito ha un reparto per sè! e le tavolette di solito vanno dai 2.40 franchi ai 3, vale proprio la pena di assaggiare non solo le diverse varietà della Lindt, ma anche altre marche (noi abbiamo provato una tavoletta della Ragusa che è un misto tra cioccolato bianco e al latte...ottima!). 

    2°: non trascurare quello che uscirà dal tuo pancino!
    Una delle fontane della città
    Se si è fuori tutto il giorno e si beve alle tante fontane della città... da qualche parte poi i liquidi devono pur uscire e siccome Zurigo è una città pulita non si possono fare uscire dove si vuole... In molti posti della città ci sono dei bagni pubblici a pagamento, molto puliti e sempre riforniti di sapone e carta igienica. Alcuni di questi costano 1 Franco, altri usano il trucchetto comodo ma sconveniente di accettare sia 1 franco che 1 euro... non fatevi fregare così! (attualmente 1 Franco vale 85 centesimi di Euro... quindi l'equiparazione non è proprio conveniente!). Se in tasca quel Franco non lo avete, ci sono almeno due bagni gratuiti e molto ben tenuti (di sicuro ce ne saranno di più...questi sono quelli che abbiamo trovato noi): uno e sul lungolago, versante est, più o meno all'altezza del teatro dell'Opera. Si trova vicino a un bel chiosco che serve cocktail, non è difficile da trovare. L'altro si trova invece in uno dei quartieri storici della città, proprio sotto la collinetta di Lindenhof, verso nord.

    3°: sfrutta quello che la città ti offre! 
    Una visuale dalla terrazza dell'ETH
    Zurigo non è una città caotica, ha tanti locali (nei quali se vuoi risparmiare comunque non entrerai!) e tanti punti di interesse, per cui i turisti sono sparsi per la città e non concentrati in un unico punto. Questo è un enorme vantaggio perché si può girare tranquillamente in una città non deserta ma neanche congestionata dalle code. Ci sono molti spazi di verde pubblico e la passeggiata sul lago è bellissima, così come i vari punti attorno alla Limmat. Il consiglio è di fermarsi a mangiare o a bere qualche cosa proprio in questi punti, godendo degli scorci sulla città e dei tanti cigni e papere che amano avvicinarsi a mangiare qualcosa del vostro (non economico) pasto! 
    Zurigo è una città universitaria e sia la facoltà di Medicina che l'ETH (il politecnico) sono in una zona che vale la pena di visitare per la vista sulla città che si gode da lì. Inoltre anche se è una città molto cara e non so cosa possa fare un comune studente (...o forse proprio per questo), gli studenti universitari hanno l'ingresso gratuito a molti monumenti! Per cui vale la pena, per chi può, di sfruttare il tesserino universitario!
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  9. Ho tradotto un racconto tratto dal libro Hasidic Tales of the Holocaust di Yaffa Eliach ad uso e consumo di chiunque ne sia interessato e poiché non ne esiste una traduzione italiana. Potete condividerla con chi volete, l’importante è che non spacciate la traduzione come opera vostra ma citiate Vincenzo Federico come traduttore e che non la utilizziate per ottenerne profitto.  Buona lettura! Se qualcuno fosse interessato ad altri brani del volume può contattarmi.

    I filatteri di un fratello

    Lei era un’adolescente. Suo fratello era di qualche anno più giovane. La loro intera famiglia era stata deportata insieme a migliaia di altri ebrei di Rzeszow verso il campo di sterminio di Belzec. Lei, suo fratello e un giovane cugino erano gli unici sopravvissuti di una famiglia molto numerosa. Nel novembre 1942, quando i molti viaggi verso i campi di sterminio avevano ridotto la popolazione del ghetto di Rzeszow, il ghetto venne trasformato in un campo di lavoro e diviso in due parti più piccole e isolate: A per i lavoratori-schiavi e B per i membri delle loro famiglie. I tre giovani si ritrovarono nel campo A. quando arrivarono suo fratello realizzò che, nella grande fretta della deportazione dalla parte più grande del ghetto, aveva lasciato lì i suoi filatteri, che aveva ricevuto per il suo Bar Mitvah allo scoppio della guerra. Credeva che se avesse pregato indossando i filatteri, lui, la sua amata sorella e suo cugino sarebbero sopravvissuti alla guerra, perché i filatteri erano appartenuti al suo bisnonno, un importante Hassid, ed erano stati tramandati di padre in figlio.
    Prima ancora che sua sorella provasse a fermarlo, lui corse indietro verso la parte più grande del ghetto per recuperare i suoi filatteri. Non appena entrò nel ghetto fu catturato dai tedeschi e venne condannato a morte con l’accusa di saccheggio. Quando sua sorella seppe del destino del fratello, corse immediatamente verso il quartier generale della Gestapo e supplicò il comandante di liberare il suo unico fratello ancora vivo. Il comandante della Gestapo la guardò perplesso e divertito e disse: -Sei stata proprio una ragazzina molto carina e coraggiosa a venire al quartier generale della Gestapo per supplicare per la vita di tuo fratello. Per gli ebrei questo posto è il portone verso l’eternità. Dammi una buona ragione per cui dovrei ascoltarti.
    -Per una ragione molto buona,- replicò la sorella senza esitazione, -Mio fratello è ritornato nella parte più grande del ghetto per recuperare un oggetto sacro che ha uno speciale potere protettivo. Se rilascerà mio fratello, non le accadrà nulla sui campi di battaglia e ritornerà in buona salute in Germania per riunirsi con la sua famiglia alla fine della guerra.
    Ci fu un silenzio nella stanza che per la sorella durò un’eternità. Il comandante della Gestapo guardò attraverso la finestra come alla ricerca di un punto lontano. Senza guardarla comandò: -Lasciate che il giovane si ricongiunga alla sorella.

    La pioggia

    Le selezioni al campo di lavoro di Rzeszow, in Polonia, terminarono nel novembre del ‘43. La sorella, suo fratello e loro cugino, tutti coloro che erano sopravvissuti da una grande famiglia, vennero deportati ad Auschwitz. Con l’avanzata dell’Armata Rossa, vennero poi evacuati in grande fretta.
    Durante i gelidi mesi dell’inverno del ‘45, decine di migliaia di esseri umani innocenti che stavano morendo di fame, congelando e a malapena vestiti, vennero guidati attraverso l’Europa a piedi e in carri bestiame verso vari campi di concentramento e di lavoro nelle parti più interne, in Germania. La sorella venne separata dai ragazzi e si ritrovò in un campo mentre il fratello e il cugino raggiunsero Gardelegen, in Germania.
    Era una giornata primaverile soleggiata e luminosa, il 14 aprile del ‘45 in un campo vicino alla città di Gardelegen. La liberazione era vicina. L’Armata Rossa si stava avvicinando in direzione del fiume Elba e divisioni armate dell’esercito americano stavano avanzando verso il fiume da ovest. I nazisti e i loro collaboratori avevano i giorni contati e stavano cercando una maniera veloce per uccidere i lavoratori-schiavi. Sotto la direzione di un soldato della Wehrmacht dei giovani tedeschi con l’uniforme delle S.S. riunirono 1100 prigionieri di varie nazionalità, incluso un americano, li pascolarono dentro un enorme fienile di mattoni circondato tutto da paglia impregnata di benzina e appiccarono il fuoco. Tra i 1100 esseri umani nell’inferno di fuoco c’erano i due cugini.
    È difficile descrivere le urla e le preghiere provenienti dal fienile. Man mano che il fumo diveniva sempre più intenso e le fiamme saltellanti diventavano più alte, le urla diminuivano e venivano soffocate dal suono dei colpi di tosse. Ma le preghiere non si fermavano. Tutte le preghiere individuali, tutti i barlumi di speranza si riunivano in una frase, un pianto di uomini in una babele di lingue: “Oh Dio, salvaci!” “Shema Yisrael!” “Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è uno!” Con ogni ondata di fiamme divoratrici, le urla degli uomini che stavano bruciando diventavano più distanti e deboli. Improvvisamente il cielo si fece nero. Un tuono scosse cielo e terra. La pioggia scese giù a fiumi, come un’alluvione.
    Le fiamme svanirono. Una manciata di giovani persone riuscì a uscire dal fienile e si gettò nella terra zuppa. I giovani cugini avevano vinto un’altra partita contro la morte ma sul pavimento dell’edificio c’erano i corpi bruciati di 1016 giovani.
    Il giorno successivo i soldati americani liberarono Gardelegen. Come indicato dal loro rapporto: Il secondo battaglione, 405 fanteria, scoprì vicino a Gardelegen un’atrocità così orribile che potrebbe benissimo essere stata compiuta in un’altra epoca o piuttosto su un altro pianeta.

    Una melodia pasquale

    La pioggia aveva estinto le fiamme del granaio di Gardelegen, Germania, dove 1016 lavoratori-schiavi morirono. Quando la pioggia si fermò i sopravvissuti all’incendio, altri prigionieri comuni e di guerra vennero caricati su camion controllati dai tedeschi e dai gendarmi per essere portati nei boschi ed essere fucilati. I boschi erano a pochi chilometri dal campo. L’aria era fresca e pulita. Il giovane fratello e il cugino erano su uno dei camion.
    -Sono stanco- disse una delle guardie; -Hey, ragazzo ebreo, canta per me una delle tue canzoni religiose o un inno-. Il cugino, un giovane hassid, aveva una bella voce.
    Era il 15 aprile del 1945, appena cinque giorni dopo la festa della Pasqua ebraica. Il giovane iniziò a a cantare una canzone dall’Haggadah di Pasqua Ve hi she amdah la-avoteinu. La melodia era bellissima. Subito gli altri lavoratori-schiavi di varie nazionalità e le guardie si unirono al canto. Il delicato vento di primavera portava la canzone agli altri camion del convoglio della morte e anche loro canticchiarono la melodia.
    Non appena si avvicinarono alla foresta, la guardia tedesca interruppe il canto. -Spiegami il significato della vostra canzone, traducila per me. Il giovane hassid tradusse: E questo è quello che accadde ai nostri antenati e a noi. Perché non è stato solamente uno ad alzarsi contro di noi per annientarci, ma in ogni generazione sono stati in molti ad alzarsi contro di noi per annientarci. Ma il Santo -benedetto sia Lui – ci ha sempre salvato dalla loro mano.
    Quando il ragazzo terminò la traduzione il tedesco scoppiò in una selvaggia risalta di scherno: -Vediamo un po’ come il vostro dio vi salverà dalla mia mano!
    -Io sono vivo, ma non ho paura di morire.- Rispose il ragazzo
    Raggiunsero uno spiazzo nella foresta. A gruppi da sei venivano portati vicino a un burrone per venire uccisi. I due cugini erano parte dell’ultimo gruppo. Sulla faccia del tedesco c’era un’espressione di trionfo mentre i giovani ragazzi venivano condotti alla loro morte.
    Improvvisamente arrivò una motocicletta con due alti ufficiali tedeschi; ordinarono che i prigionieri rimanenti venissero riportati al campo. Gardelegen si era appena arresa all’esercito americano.

    -Lo chiami pure destino, lo chiami miracolo, lo chiami come vuole- disse la signora Glatt concludendo la storia di suo fratello e di suo cugino, -ma una cosa è chiara. Noi, il popolo ebraico, con la nostra sovrabbondanza di fede, riusciremo in qualunque modo a sopravvivere per sempre.
    Dopo un breve momento di silenzio aggiunse: -Io sono la bisnipote di Rabbi Raphael Zimtboim, il segretario personale del rabbino di Zenzer, Rabbi Hayyim Halberstam. Il rabbino era zoppo e molte volte il mio bisnonno, Reb Raphael, lo portava in giro. Forse è stato merito suo, merito della fede innocente di mio fratello e merito dei filatteri che hanno protetto tutti noi. I filatteri appartenevano a Reb Raphael.
    -E suo fratello? dove è adesso?

    -Poco dopo la liberazione morì. I suoi polmoni erano stati molto danneggiati dall’incendio di Gardelegen. Ma morì da uomo libero!
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  10. Qualche giorno fa su Radio Capital ho sentito nominare il titolo di un racconto, Cat Person. In realtà non ne ho realmente sentito parlare, hanno solo citato il titolo (oppure ne avevano discusso prima e mi sono perso i loro commenti!) e poi hanno cominciato a parlare di animali domestici. Mi ha incuriosito che in radio si citasse un racconto, ma la mia curiosità si è fermata lì. Qualche giorno dopo ho notato un post su una pagina Facebook che si occupa di narrativa breve (Cattedrale Osservatorio Sul Racconto, come fa a non attirare l'attenzione un nome così?!) nel quale si dava il link al "racconto di cui si sta molto parlando" che ovviamente era Cat Person. Il link rimandava al testo del racconto pubblicato sulla rivista New Yorker che, da quel poco che so di editoria americana, è un faro per la narrativa statunitense. Ed ecco che la curiosità si è accesa del tutto.
    Nell'arco di qualche viaggio in treno e in bus ho letto il testo, scritto in un inglese dalla sintassi abbastanza semplice e con un lessico colloquiale (Dio benedica Wordreference, sempre a disposizione quando c'è qualche dubbio da chiarire!). La storia del racconto di Kristen Roupenian è semplice: Margot ha venti anni ed è molto sveglia, Robert ha qualche anno più di lei ed è molto impacciato e schiavo del suo ruolo di persona più grande. I due si conoscono, messaggiano e poi la loro storia va avanti (alcuni siti riassumono tutto il racconto, ma io sono dell'idea che non sia compito di una recensione anticipare troppo!). Il racconto è focalizzato su Margot e il punto forte del testo è proprio l'analisi psicologica del conoscersi, dell'iniziare una relazione, delle titubanze, i timori e i pensieri di quali potrebbero essere le aspettative dell'altro. Il testo risulta uno dei testi più letti sul sito del New Yorker anche perché il mondo del lettore, del lettore che legge su internet, è lo stesso mondo dei personaggi. Si tratta del nostro mondo fatto di relazioni portate avanti via messaggio, di persone che in fondo si conoscono solo per l'immagine che danno di loro o che noi ci siamo costruiti, persone che si conoscono poco ma a cui magari si concede una intimità solo fisica. Il lettore, come Margot, ricava dalla fantasia i tasselli che mancano per conoscere appieno qualcuno.
    Tutti questi elementi di indubbio valore spiegano perché chi ha letto il racconto lo ha apprezzato. Ma non spiegano perché tante persone abbiano avuto voglia di leggerlo e perché tanti mezzi di comunicazione (certo, anche questa pagina!) abbiano voglia di parlarne. Alcuni hanno parlato di narrativa che diventa virale ed effettivamente pare sia questo quello che è successo. Seguendo meccanismi che non saprei proprio analizzare. C'è chi mette in relazione il testo con lo scandalo delle molestie nel mondo del cinema, ma se leggete il racconto vi rendere conto che questo è solo un fragile gancio, il racconto è molto di più.
    Una cosa però mi chiedo e può essere uno spunto di riflessione interessante: ma tutta la gente che si è immedesimata o ha trovato repellente qualcuno dei personaggi, quelli che hanno espresso in qualunque modo un parere magari tramite un tweet, ecco, tutte queste persone leggono abitualmente racconti? Perché Cat Person è un bellissimo racconto, ma è in ottima compagnia! Carver, Hemingway, Tondelli, Yates, Fenoglio, Munro, Pirandello sono tutti autori che hanno lasciato pagine potenti sulla vita quotidiana e le relazioni, donando personaggi e spunti per chiunque cerchi in un testo qualcosa di sè e del mondo che lo circonda. 
    W la letteratura virale allora se può aprire a sempre più persone il mondo meraviglioso dei racconti e  se riesce a togliere la forma racconto dalla bacheca di "genere minore". Se invece il dibattito si scioglierà dopo qualche tweet e like sarà stato certo un piacere per chi ha letto e ne ha tratto beneficio, ma tutto sommato si potrà considerare un'occasione persa per i Racconti tutti.

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